Il messaggio è forte e chiaro: «La Sardegna deve liberarsi dal colonialismo che la attanaglia da secoli». Giulia Spada ha 32 anni, è una scrittrice nata a Cagliari, ha vissuto per tanto tempo in Sardegna insieme alla madre e al padre che era un insegnante nelle scuole del Basso Sulcis.

Giulia Spada, 32 anni (foto concessa da Giulia Spada)
Giulia Spada, 32 anni (foto concessa da Giulia Spada)
Giulia Spada, 32 anni (foto concessa da Giulia Spada)

Proprio la morte del padre, ucciso nel 2003 da una leucemia, ha ispirato l’ultimo libro della autrice da qualche tempo trasferita a Milano e che come tanti emigrarti guarda con altri occhi una terra fantastica, la “sua” Sardegna, con tante potenzialità spesso inespresse e un patrimonio ambientale e umano unico (“Sono morto come un vietcong”, casa editrice “Sensibili alle Foglie”, 128 pagine, 13,30 euro).

«Mi considero un’orfana di guerra: mio padre, ne sono convinta, è stato ucciso da una malattia che ha contratto nella zona di Teulada, teatro dal 1950 di guerre che chiamare “simulate” mi sembra sbagliato. Si spara, si bombarda, dal mare, da terra, dall’aria. Uno sfregio alla Sardegna e alla salute di chi è costretto a respirare le polveri della guerra cancerogene. Siamo in piena emergenza sanitaria, dobbiamo rendercene conto ancora di più in questo periodo storico segnato da una pandemia causata da un virus».

La copertina del libro di Giulia Spada "Sono morto come un vietcong"
La copertina del libro di Giulia Spada "Sono morto come un vietcong"
La copertina del libro di Giulia Spada "Sono morto come un vietcong"

Ne ha mai parlato con suo padre?

«Ero molto piccola quando lui è morto e nei discorsi all’interno della famiglia l’argomento provoca ancora troppo dolore».

Come è nato il suo libro?

«“Sono morto come un vietcong” è un romanzo che vorrebbe aiutare i sardi a prendere coscienza di quel che accade nella nostra fantastica isola. Lo Stato ha deciso di sacrificare una parte del territorio che da Roma magari è lontano, che negli ambienti dalla geopolitica è giudicato scarsamente popolato, utile per certi scopi. Che per adesso sono militari, ma per il futuro chissà».

Depositi di scorie nucleari in Sardegna?

«Il rischio non è solo quello. Anche l’utilizzo del territorio, di un territorio unico come quello della Sardegna, a esclusivo vantaggio economico di chi investe nelle energie rinnovabili è l’altra faccia del colonialismo che la Sardegna potrebbe essere costretta a subire».

I poligoni militari sono stati il primo passo.

«La gente deve sapere e soprattutto prendere coscienza che l’Italia affitta a eserciti di tutto il mondo la nostra terra con lo scopo che essa venga bombardata. E che il ritorno economico per la Sardegna è nullo, lo ammette lo stesso Stato riconoscendo degli “indennizzi” alle comunità che devono sopportare la presenza delle servitù militari più estese d’Europa. Pochi stipendi in cambio di un territorio unico da bombardare con tutto quel che ne consegue, soprattutto le polveri della guerra cancerogene».

I missili stranieri hanno distrutto isolette e nuraghi.

«E provocato morte. Ci sono certi dati che nessuno ha mai smentito».

Il caso di Quirra è lampante: dieci pastori malati di tumore su diciotto residenti attorno al poligono.

«Sta passando una teoria bislacca: Sardegna popolo di centenari grazie a un determinato patrimonio genetico rimasto nei geni da secoli, lo stesso Dna sotto accusa per le morti di tumore in determinate aree. Ed è passato quasi sotto silenzio che lo Stato abbia bonificato i poligoni non con un intervento approfondito nelle aree bombardate, ma con una legge, equiparando quelle zone adibite anche a pascolo alle zone industriali tipo Portovesme, Porto Torres o Porto Marghera».

Se n’è occupata anche la magistratura per Quirra e Teulada.

«I processi penali si sono rivelati una strada cieca: non si deve mettere sotto accusa un generale, ma lo Stato».

In sede civile invece lo Stato è stato condannato centinaia di volte per le morti dei soldati ammalati nei teatri di guerra e nei poligoni.

«A mio avviso serve un altro tipo di azione».

Quale?

«Il vero cambiamento deve avvenire dal basso, dalla gente, e deve essere di tipo culturale. I sardi devono prendere coscienza che la loro terra non deve essere trattata da Roma come una colonia, che i sardi devono essere rispettati. Parlo dei poligoni, dell’eventuale deposito di scorie nucleari che qualcuno vorrebbe realizzare in una zona che non è sismica ed è scarsamente popolata, e anche dell’invasione delle pale eoliche e dei pannelli solari nelle colline, nella pianure, in mezzo al mare».

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