Partiamo dal terrore: l'assedio era diabolico e disperato. Accostamento sulle scialuppe, sbarco silente al calare nelle tenebre (di prassi), perlustrazione e attacco a sorpresa ai villaggi tra urla, smorfie, sudore e i bagliori delle fiamme appiccate in ogni angolo della zona: casa o campi, culle o stalle. È l'effetto pirati, devastante nella vita di allora. Ma che evidentemente è rimasto nella genetica di tante generazioni successive a distanze di secoli. Questa storia potrebbe iniziare da un qualsiasi punto della costa sarda. Nel grande libro della pirateria dell'Isola non si discriminano luoghi e popolazioni. Dalla Gallura alla Nurra, dall'Oristanese alla Baronia, dalla Planargia al Sarrabus e all'Ogliastra. Città o piccoli borghi, nessuna differenza. Con una predilezione per i quadranti che portano agli arcipelaghi o isole minori. Vicende che escluderebbero l'entroterra, se non fosse che le oltre cento torri costiere di avvistamento e di difesa arroccate sul mare, nascono a salvaguardia dell'intera Isola. E se non fosse, anche, che i toponimi di molte località distanti dalla costa si rifanno a corsari, mori, turchi e saraceni. Ma c'è di più. Esiste uno stemma sardo. Una bandiera inequivocabile che, al netto del dibattito sulla sua origine, su dove mettere la benda e sull'orientamento, racconta non di nuraghi, bronzetti, domus de janas, Shardana, Giganti come qualsiasi continentale non distratto si aspetterebbe quando pensa ai sardi. Parla invece di quattro teste mozzate di Morus, quattro pirati scelti a vessillo della ultra millenaria esistenza di un popolo. Insomma è la storia della incursioni barbaresche in Sardegna che è documentata dal 700 alla metà del diciannovesimo secolo.

Certo i pirati ottomani o del Nord-Africa poco hanno a che fare con le ciurme della Filibusta, i bucanieri e la roccaforte caraibica di Tortuga. Nessun legame con i pirati della Malesia. Nel Mediterraneo per oltre un millennio incrociavano legni "fuorilegge", galee e fuste cariche di schiavi in nome di Maometto. All'epica del Jolly Roger, la bandiera nera con teschio e tibie, si sostituisce quella della Mezzaluna. Cambiano i vessilli ma non le violenze, il terrore e le atrocità. Stupri, torture e devastazioni come capitò durante il famoso assedio di Uras, avvenuti nel 1515 ad opera del famigerato pirata Khair ed-Din detto Barbarossa. «EI 5 de abrili 1515 esti istada isfata sa vila de Uras de manu de turcus e morus e fudi capitanu del morus Barbarossa». È questa la scritta scolpita in una lapide custodita nella chiesa campestre di San Paolo, nell'antico di villaggio di Serzela a Gonnostramatza. Proprio nel paesetto della Marmilla, è possibile visitare l'interessante museo multimediale Turcus e Morus, nato e ispirato appunto da quel documento. Dodici anni dopo, 1527, i pirati tornano nel golfo di Oristano, gettano le ancore nel porto di Terralba. Inizia l'assedio di alcuni villaggi quali la stessa Terralba, Uras e Arcidano. Gli abitanti vengono sorpresi nel sonno; alcuni sono uccisi, altri riescono a fuggire nelle campagne circostanti.

La storia racconta che i corsari continuarono i loro saccheggi a Mogoro, Pabillonis e San Gavino quando, verso sera, scoppiò un violento temporale che li costrinse a fermarsi. Il mattino seguente Aydin Rais, fedele guerriero di Barbarossa, decise di ritirarsi; fa dare alle fiamme le case, fa demolire in parte il castello di Uras e si reimbarca con i prigionieri. A quel punto intervengono 300 soldati sardi che riescono a recuperare gran parte del bottino e del bestiame razziato. Alcuni degli schiavi catturati, saranno liberati anni dopo con la conquista di Tunisi da parte degli spagnoli.

Che il terribile pirata Khair ed-Din, il Difensore della fede, ammiraglio della flotta ottomana più famoso e più terribile di tutti i pirati, fosse un irriducibile di Sardegna lo confermano le sue continue scorribande nell'Isola. A lui tra l'altro è legata la vita leggendaria di Hassan Aga, instancabile pirata e terzo re di Algeri ma di umili origini sarde. Secondo quanto riportato da molti documenti, Hassan era un pastorello dell'Asinara che all'età di 10 anni fu fatto schiavo nel corso di una delle solite incursioni del temibile ottomano. Barbarossa si affezionò tanto a quel ragazzino che decise di non venderlo ma di portalo nella sua corte dove venne istruito e trattato come un suo figlio adottivo (previa castrazione, come si usava). Il giovane si convertì all'Islam rinnegando il cristianesimo e per la sua particolare bellezza venne chiamato Hassan. Le cronache lo ricordano come grande stratega e uomo di spiccata intelligenza. Nel 1541 riuscì a bloccare l'assalto di Carlo V ad Algeri. Morì due anni dopo. Scorrendo il lungo elenco di pirati in cerca di bottini nell'Isola, almeno due meritano di essere ricordati: Ciuffo, il Sardo rennegato, che divenne rais di una galeotta al servizio del Bey di Tunisi, e Ramadan Pascià, anche lui rapito e costretto a rinnegare il cristianesimo. Fu governatore di Tunisi e Tripoli, ammiraglio della flotta turca per conto del sultano Solimano il Magnifico e, per ben due volte, re di Algeri. Legato ancora al Barbarossa e alla Sardegna è soprattutto un altro temutissimo pirata, il terribile Dragut, Turgut Reis Ali, corsaro che nel Cinquecento seminò terrore e violenze in molte coste del Tirreno e nell'Isola. Dopo la morte di Barbarossa a lui andò il comando della pirateria in tutto il Mediterraneo. Era soprannominato la Spada vendicatrice dell'Islam. L'arcipelago della Maddalena era diventato il suo nascondiglio preferito. Budelli o Santa Maria divennero le sue Tortuga. Dragut diventò tanto famoso da spingere l'imperatore Carlo V in persona a chiederne la cattura. La sua flotta viene intercettata a Bosa mentre nel 1553 Dragut attaccò, abbandonandola nella più totale devastazione, Terranova l'odierna Olbia, con 112 navi tra galere e brigantini. Dieci anni dopo, il corsaro Drugut tentò diversi sbarchi nel golfo di Oristano e nel porto di Marcellino (attuale Marceddì) ci fu uno scontro fra gli uomini appena sbarcati ed una grossa comitiva di ritorno dal una battuta di caccia durante il quale Drugut però ebbe la peggio.

Fra le tante incursioni piratesche sul finire del Cinquecento merita anche quella che interessò Quartu Sant'Elena. Era il 1582 quando vennero catturate oltre 200 persone mentre il resto della popolazione fuggì nei villaggi vicini di Sinnai, Sestu, nel Sarrabus e nei quartieri di Cagliari.

Giammaria Poddighe, è con lui ci spostiamo in Planargia, era un cittadino di Tresnuraghes che durante un assedio dei corsari barbareschi, guidò una vera e propria guerriglia armata contro quei nemici arrivati dall'Africa. Secondo La Marmora che nel suo Itinéraire de l'ile de Sardaigne ricorda l'episodio, gli eredi di Poddighe riuscirono a conservare la bandiera dei Mori con la mezzaluna presa in quel conflitto. A Muravera, nella marina di San Giovanni, si incontra invece quella che viene chiamata la Torre dei Dieci cavalli. Era una sorta di porta di ingresso per accedere ai paesi del Sarrabus. La storia ricorda come da questo manufatto di difesa partivano dieci cavalieri alla volta dei villaggi circostanti per dare l'allarme in caso di incursioni piratesche. Insomma quella della pirateria in Sardegna è una storia infinita e complessa, difficile da raccontare in ogni dettaglio ma giustamente fissata in eterno nello stendardo ufficiale di una terra e di un popolo. Bisognerà aspettare il 1816, dopo il Congresso di Vienna, per assistere alla graduale fine delle scorrerie barbaresche. Mille anni e passa di incursioni, quasi rimossi dalle coscienze di ciascuno. Eppure, una storia avvincente quanto quella più blasonata della civiltà nuragica. Confutarlo significherebbe rinnegare una bandiera, se posso, tra le più belle al mondo.

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