Quel romanzo, “Una donna”, pubblicato a Torino nel 1906, rappresenta una pietra miliare nella storia del femminismo in Italia. Perché, cosa mai accaduta precedentemente, con quell’opera, Sibilla Aleramo (pseudonimo di Marta Felicina Faccio) rifiuta il ruolo tradizionale della donna, quello, cioè, di moglie e di madre. Un ruolo al quale sembra essere condannata quando, nel 1893, appena quindicenne, è costretta a sposare Ulderico Pierangeli, l’uomo che l’aveva violentata qualche mese prima. Un matrimonio, per altro, inutile dal momento che quella gravidanza non fu portata a termine. Due anni più tardi, nasce il figlio Walter che lei ama intensamente. E che, però, è costretta a lasciare quando quel marito violento e ignorante le impone di lasciare Milano dove lei dirige “L’Italia femminile” dopo aver scritto per “Vita internazionale” e per “Vita moderna”. Una scelta difficilissima che il figlio non le perdona al punto che i due si incontrarono soltanto altre tre volte nella loro vita.

Una donna moderna, troppo avanti per essere capita dai suoi contemporanei. Una donna capace di vivere la sua sessualità senza preoccuparsi dei pregiudizi: proprio lei racconta, nelle sue opere, della sua passione per Lina Poletti, impiegata nella Biblioteca cassenses di Roma, dei suoi numerosi amori, da Vincenzo Cardarelli a Salvatore Quasimodo, passando per Michele Cascella, Giovanni Papini, Giovanni Boine, Clemente Rebora, Umberto Boccioni, Raffaello Franchi e Julius Evola. Ed è lei, forse, la prima italiana a raccontare le sue love story con quelli che oggi verrebbero definiti toy boy. Il primo fu Enrico Emanuelli, più giovane di lei di 36 anni. Con il secondo, Franco Matacotta, che aveva 40 anni meno di lei, vive la parte finale della relazione proprio a Cagliari.

Nel 1935, alle soglie dei sessant’anni, Sibilla Aleramo riceve una tenerissima lettera di un aspirante poeta di Fermo, Franco Matacotta. I due si incontrano nel gennaio del 1936 e scatta subito una passione travolgente: lui si innamora follemente di quella donna che sconvolge il suo animo di poeta; lei, reduce dalla fine della storia d’amore con Quasimodo e devastata dal fatto che il figlio Walter non la voglia vedere, viene conquistata da quel ragazzo dolce e, allo stesso tempo, crepuscolare.

Un amore travolgente che viene vissuto alla luce del sole in giro per il mondo: Aleramo mette da parte la sua passione per la letteratura e per la scrittura e si dedica soltanto al suo Franco. Quella strana coppia viene vista passeggiare, mano nella mano, nelle isole greche, a Roma, a Capri. Nulla sembra poter scalfire quella passione travolgente. Ma i venti di guerra cominciano a soffiare sempre più impetuosi. Matacotta viene arruolato, lei tenta in tutti i modi di evitargli la chiamata alle armi. Inutilmente. Anzi, deve vivere il dolore di accompagnarlo a Civitavecchia perché il giovane poeta viene spedito in Sardegna. Si rivela infruttuoso anche il tentativo di farlo tornare, quanto meno, a Roma.

Per lei è impossibile stare senza il suo giovane compagno. E così decide di andare da lui: a bordo di un idrovolante, raggiunge Cagliari dove si sistema nell’albergo allora più lussuoso della città, la Scala di Ferro, in viale Regina Margherita. Nel primo incontro, i due rivivono la passione dei tempi andati. Ma i loro incontri diventano sporadici, quasi casuali: Matacotta deve obbedire agli ordini e si sposta frequentemente da un capo all’altro dell’Isola. Lei lo segue, si sistema spesso in alberghi fatiscenti ma deve sottostare alla disciplina militare. Quindi, i due non possono passeggiare mano nella mano neanche nelle ore di libertà del giovane.

Eppure, in quella “odissea sarda”, come lei la definisce, ci sono anche momenti belli: quelli che trascorre con il suo Franco nelle stanze della Scala di ferro. Ma anche le passeggiate tra le librerie della città e le moltissime ore trascorse al vicino Caffè genovese dove trova la forza e la voglia di ricominciare a scrivere con una certa continuità. In particolare, annota nel suo diario l’esperienza sarda che, problemi di spostamenti a parte, considera positiva. Quell’amore consumato nelle stanze della Scala di Ferro è una cosa meravigliosa.

Ma quel diario ha soprattutto una funzione quasi terapeutica: le serve per capire che quella passione travolgente è forse arrivata al capolinea. Perché il suo Franco sembra sempre più assente. E perché lei comincia a rendersi conto che quell’amore nasconde, forse, qualcosa di diverso: “Come un mistero sacro”, scrive, “questo fanciullo non generato dalle mie viscere mi ha fatto madre del suo spirito. Io che il figlio da me partorito non potei allevare se non da bambino, mi son trovata nel mio tramonto di fronte a questa seconda e più profonda missione”. Ma, nonostante questa “scoperta”, il fatto, cioè, che quel giovane sia quasi un surrogato del figlio, lei continua a sperare in un allontanamento solo temporaneo. Continuano a scriversi anche quando sono lontani fisicamente sino a quando, alla fine della guerra, lui le invia una lettera d’addio.

Ma il ricordo resta a lungo. Al punto che, nel 1954, lei scrive: “Mi sento atterrita dinanzi alla grandezza di quella mia ultima, per fortuna, illusione d’amore”.

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