La cosa incredibile era che il migliore in campo fosse quello col numero 32 sulla schiena. 

La stella più brillante

Domenica 9 febbraio 1992, Orlando (Florida). All Star Game del basket Usa, la solita sfida-esibizione tra i migliori giocatori dell’Est e dell’Ovest. Dopo il primo quarto di gioco, il playmaker della selezione Ovest ha già messo a segno 10 punti, e varie giocate spettacolari che i telecronisti sottolineano con più enfasi del solito. Lui si chiama Earvin Johnson Junior: ma per tutti è Magic Johnson, l’asso dei Los Angeles Lakers, uno dei cestisti più forti di sempre. 

La cosa incredibile non è che sia lui il migliore nella partita delle stelle. Ma il fatto che, a dare quella grandiosa prova di classe, sia il primo uomo al mondo a scendere ufficialmente in campo con il virus dell’Aids. Uno che, tre mesi prima, era stato considerato un atleta finito. Peggio: un condannato a morte.

Non è esagerato dire che l’annuncio della sieropositività di Magic Johnson abbia cambiato la storia. Dello sport e della sanità. Quantomeno, del modo in cui abbiamo considerato l’Hiv e le persone contagiate. Di quell’annuncio storico, in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario.

“Conto di vivere a lungo”

Giovedì 7 novembre 1991, Los Angeles. I cronisti sportivi sono convocati per una conferenza stampa di Magic Johnson, che da qualche giorno non si vede più in campo con i Lakers. L’argomento è segretissimo, ma c’è sempre qualcuno che interpreta in maniera molto relativa il concetto di segreto. Filtra l’indiscrezione che Johnson annuncerà il ritiro, a soli 32 anni e ancora nel pieno delle forze. La Cnn, all’ultimo momento, riesce ad anticipare il motivo. Ma le notizie sono ancora frammentarie. I giornalisti dei network tv collegati in diretta mostrano sui loro volti una tensione crescente. C’è il presagio di un dramma. 

Poi arriva lui. Col solito sorriso splendente, solo un po’ più tirato del solito. Poche frasi scarne: “Buon pomeriggio. Poiché ho contratto il virus dell’Hiv, devo ritirarmi oggi dai Lakers. Chiarisco che non ho l’Aids, e mia moglie è negativa. Ho in progetto di vivere a lungo, rompendo le scatole a tutti come sempre, quindi mi vedrete ancora qui alle partite dei Lakers. Ma credo che ora potrò godermi qualche altro lato della vita”. 

Magic Johnson durante le finali Nba del 1987 contro i Boston Celtics (foto Steve Lipofsky da Wikipedia)
Magic Johnson durante le finali Nba del 1987 contro i Boston Celtics (foto Steve Lipofsky da Wikipedia)
Magic Johnson durante le finali Nba del 1987 contro i Boston Celtics (foto Steve Lipofsky da Wikipedia)

Difficile, in quel momento, non considerarle parole di circostanza. “Sentendolo ho pensato: è un morto che cammina”, confesserà anni dopo Karl Malone, avversario degli Utah Jazz. Probabilmente lo pensano in tanti. Lo choc è enorme in tutto il pianeta. Il presidente degli Stati Uniti, George Bush padre, dice alla stampa: “È una tragedia, sono tristissimo”. Il giorno dopo Pat Riley, ex coach dei Lakers passato ai Knicks, prima di una partita convince le due squadre e l’intero pubblico del Madison Square Garden a recitare insieme il Padre Nostro per l’amico in difficoltà.

Forse lo stesso Magic Johnson, durante la conferenza stampa, crede poco a quello che dice. Ammetterà in seguito di aver pensato di doversi preparare alla morte e sistemare le cose per Cookie, sposata solo due mesi prima, e per il figlio in arrivo. 

Ma nel momento dell’annuncio, aggiunge parole profetiche. “Voglio diventare un portavoce della lotta all’Aids, perché i giovani capiscano che possono fare sesso sicuro. A volte si è un po’ ingenui, pensi che a te non possa capitare. Ora devo fare i conti con questa cosa. Ma la vita per me continua, e sarò una persona felice”. 

Trent’anni dopo

È andata proprio così. L’ex numero 32 gialloviola appare oggi un uomo realizzato; è stato allenatore e presidente dei Lakers, fa l’imprenditore, ha posseduto un team di baseball, trascorre spesso le sue vacanze in Italia (varie volte anche in Sardegna). La sua storia ha contribuito molto a cambiare la percezione generale del male del secolo (ventesimo). 

Nel 1991 l’Aids era ancora un flagello relativamente recente, considerato la malattia di omosessuali e tossicodipendenti. Magic Johnson non era né l’uno né l’altro. E col suo ritorno in campo, in quell’All Star Game del febbraio 1992, mostrò subito la possibilità di una vita normale anche con l’Hiv. Non fu facile: i primi a contestare la sua presenza sul parquet furono due suoi compagni di squadra, A. C. Green e Byron Scott, col pretesto che alla partita delle stelle non potesse partecipare chi si era ormai ritirato dalla Nba. In realtà temevano il contagio. Fu più sincero, su questo, il già citato Malone. Ma alla fine l’uomo con l’Hiv giocò, e meglio di tutti. E pochi mesi dopo, alle Olimpiadi di Barcellona, guidò l’indimenticato Dream Team – con Michael Jordan, Larry Bird e altri big – a una medaglia d’oro vinta a mani basse. 

Magic Johnson a Porto Cervo nell'estate 2021 (foto archivio L'Unione Sarda)
Magic Johnson a Porto Cervo nell'estate 2021 (foto archivio L'Unione Sarda)
Magic Johnson a Porto Cervo nell'estate 2021 (foto archivio L'Unione Sarda)

Non fu facile neppure dopo. Magic provò a ricominciare coi Lakers, nella stagione successiva; ma percepiva la paura dei compagni. La vide nei loro occhi, una volta che in campo si ferì: tornò a casa e disse alla moglie che avrebbe smesso. Riprese a giocare nel gennaio del 1996, per le ultime 36 gare della sua carriera: la classe non era volata via. 

Il suo contributo alla lotta all’Aids, però, va molto oltre ciò che ha fatto in campo. Appena si seppe della sua sieropositività, decine di migliaia di giovani corsero a fare il test anti-Hiv. Johnson ha girato e gira ancora tutto il mondo, sempre col suo sorriso travolgente, per spiegare come difendersi da un male che resta molto insidioso. La sua immagine di successo ha aiutato ad attenuare lo stigma sociale sui malati, che pure permane. E i tre decenni di lotta vittoriosa contro il virus (a prezzo di cure e controlli costanti) danno speranza a tutti i contagiati.

“Non abbassiamo la guardia”

“Il suo è sicuramente un esempio positivo”, riflette Sergio Babudieri, direttore del reparto di Malattie infettive dell’Aou di Sassari: “Nel tempo la gestione dell’Hiv è molto cambiata. Basti pensare che adesso ogni anno a Cagliari si fa un convegno intitolato: Vivere e invecchiare con l’Aids”. Certo non si poteva immaginare di invecchiare con quel male, quando nel 1986 Babudieri arrivò a Sassari mentre l’epidemia esplodeva: “Ricordo che in una notte di guardia, dalle 20 alle 8 del mattino, contammo quattro morti di Aids. Poi sono arrivati i primi farmaci, e a metà degli anni Novanta le cure con più molecole”, i famosi cocktail di medicinali.

Le terapie sono sempre più perfezionate, e la qualità di vita dei sieropositivi aumenta: “Sono in arrivo nuovi farmaci a somministrazione mensile o bimensile, rispetto a quella attuale, quotidiana”, spiega il professore. “Ormai si può condurre una vita normale. Le cose si complicano se uno ha altre patologie, ma l’aspettativa di vita si è molto allungata”. I farmaci comunque conservano effetti collaterali: “Per esempio possono determinare malattie lipidiche. Quanti pazienti con Hiv sono morti ufficialmente di infarto, ma provocato in realtà da decenni di cure?”

Insomma, abbassare la guardia resta un errore: “Purtroppo, essendo ormai diventata una malattia sessualmente trasmissibile, c’è una minore percezione del rischio”, riprende Babudieri. “Il contagio può provocare all’inizio un malessere lieve, come una piccola influenza, per cui possono passare dieci anni prima che sorgano i sintomi dell’Aids: se nel frattempo uno ha più partner, può diffondere molto il virus. Ogni anno si registrano tra i 3.700 e i 4.000 nuovi casi ufficiali, ma non sappiamo quanti siano quelli sommersi”.

La donna che l’ha ispirato

I giovani sono sempre la fascia d’età più a rischio: per questo è stata così rilevante l’attività di Magic Johnson per suggerire di proteggersi e fare controlli. Poco dopo aver saputo del contagio lui conobbe Elizabeth Mayer, moglie dell’attore Paul Michael Glaser (un altro mito degli anni ’70 e ’80: era David Starsky, nel telefilm Starsky e Hutch). Era stata tra i primissimi contagiati in America, nel 1981, per una trasfusione di sangue mentre dava alla luce la prima figlia, Ariel, poi morta per l’Hiv a 7 anni. Nel 1991 Elizabeth era ormai da tempo un’attivista anti-Aids, e a Magic disse: “Questo male ha bisogno di un volto. Voglio che tu sia quel volto”. Per rendere chiaro che il rischio riguardava chiunque, non solo chi si faceva di eroina.

Mayer aveva ragione. Anche su un’altra cosa: “Mi disse – raccontò Johnson nel 2016 – che sarei vissuto a lungo, grazie ai farmaci che si stavano sviluppando”. Non arrivarono in tempo per salvare anche lei: morì nel 1994, a 47 anni. La sua eredità è nell’ispirazione che ha trasmesso al gigante dei Lakers: lui non ha mai dimenticato la sua amica sfortunata. E in questi giorni, celebrando i trent’anni di resistenza al virus, di sicuro la ricorderà dedicandole uno dei suoi magici sorrisi.

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