Non erano cittadini come gli altri. Neanche quando, accusati di delitti orrendi, erano condannati a morte. Per loro, i nobili della città, c’era un luogo ben preciso dove veniva eseguita la pena capitale, la Plazuela, l’attuale piazza Carlo Alberto. Proprio quello che accadde, il 15 giugno 1671, a don Jaime Artal di Castelvì, marchese di Cea. Secondo le leggende noir del quartiere di Castello, tutt’ora, tra le viuzze, si sentirebbe un rumore di catene trascinate stancamente da un condannato. Il marchese di Castelvì, appunto.

Una leggenda ovviamente. Anche la vita di questo nobile cagliaritano è quasi una leggenda. Nato a Cagliari il 27 dicembre 1606, viene avviato da giovanissimo alla carriera militare. E, nelle battaglie per il Monferrato e nelle Fiandre, si fa valere, tanto che diventa capitano di fanteria. Castelvì è, però, destinato alla carriera politica e, nel 1639, torna il Sardegna per succedere al padre nella carica di procuratore reale. Ma, arrivato dalle parti di Alghero, viene catturato dai corsari di Biserta che lo cedono come schiavo al bey di Algeri. Viene liberato solo tre anni dopo, grazie al pagamento di un riscatto di ventimila reali.

Nel 1650, diventa finalmente procuratore reale e ottiene anche il titolo di marchese di Cea. Nel 1668, viene ucciso nell’attuale via Lamarmora, il cugino Agostino Castelvì, fermo oppositore del viceré Camarassa: un omicidio politico che ha lo scopo di reprimere l’opposizione parlamentare. Ma serve soltanto ad far infuriare ulteriormente gli oppositori: il 21 luglio Camarassa viene, a sua volta, ucciso.

Scoppia il caos: Castelvì, almeno apparentemente, riesce a restare a galla. Addirittura fa in modo che il principe di Piombino, comandante supremo delle forze armate nell’isola, non assuma la luogotenenza che, invece, va al governatore della provincia di Cagliari, Bernardino Cervellòn che è anche suo parente stretto. Mossa astuta. Ma poco utile: neanche Cervellòn riesce a impedire che venga avviato un procedimento penale contro Castelvì per l’assassinio di Camarassa.

Il nuovo viceré don Francesco Tuttavila, duca di San Germano, non ha dubbi sul colpevole: l’omicidio è stato messo a segno in un lembo di terra tra le abitazioni di Antonio Brondo, donna Francesca Zatrillas e don Francesco Cao. Tutte persone legate a Castelvì. Questo basta per indicare lui come il responsabile della congiura: coloro che sono ritenuti responsabili vengono condannati alla confisca dei beni, alla demolizione delle abitazioni e alla pena capitale.

Il procuratore reale vede la mala parata e, per sfuggire all’arresto si imbarca per Alghero, passando per Oristano: in entrambe le città viene accolto con grandi manifestazione di stima e di rispetto. Ma è pur sempre nel mirino della giustizia penale. Così, prima cerca riparo a Sassari, protetto da una forte scorta armata. Poi si rinchiude nel convento dei cappuccini di Ozieri.

Ma viene comunque catturato. Nel frattempo alcuni presunti congiurati vengono decapitati in Gallura e le loro teste, svuotate e riempite di sale, vengono issate in tre lance e portate in lugubre corteo verso Cagliari. Castelvì e il suo servo Francesco Cappai vengono, invece, mantenuti in vita con razioni minime di cibo e d’acqua, e portati in dodici giorni verso il capoluogo. All’arrivo, l’otto giugno, viene riaperto il processione, chiuso frettolosamente tre giorni più tardi con la conferma della pena capitale.

Il 15 giugno, Cappai viene giustiziato per mezzo della ruota medievale mentre Castelvì subisce la decapitazione. Anche in questo caso, le teste mozzate vengono rinchiuse in una gabbia di ferro ed esposte sulla torre dell’Elefante per 17 anni, fino a quando il viceré Nicolò Pignatelli Aragon nei ordina la rimozione.

Secondo la leggenda, quella testa, invece, ha un destino differente: seppellito il corpo nella chiesa di Santa Maria del Monte di Pietà (nell’attuale via Corte d’Appello) dall’omonima confraternita, si racconta, invece, che la testa scompare e non viene mai ritrovata. E allora nasce a leggenda popolare per la quale, nei giorni che precedono e seguono la data della condanna a morte, tra la torre dell’Elefante (il luogo dove è stata esposta) e piazza Carlo Alberto (il punto in cui è stata eseguita la pena capitale) si aggira un uomo senza testa.

© Riproduzione riservata