Ora sembra impossibile che sia potuto accadere: ma mezzo secolo fa, a Roma, un bambino di 8 anni e un ragazzo di 22 morirono in un modo orribile, arsi vivi, per colpa dell’odio politico che divideva l’Italia degli anni Settanta. Erano i fratelli Mattei, Stefano e Virgilio; era il rogo di Primavalle; era il 16 aprile 1973. 

È passato tanto tempo, ma per chi ricorda ancora quegli eventi Primavalle resta uno dei simboli dell’abisso a cui possono condurre il fanatismo e l’ideologia spinta oltre ogni ragionevolezza. Come il terrorismo rosso, come le stragi fasciste. Esseri umani contro altri esseri umani, l’assurdità di pensare che una vita possa essere sacrificata per un obiettivo politico. E per quelle due vite spezzate, come per tanti altri misteri d’Italia, nessuno ha pagato.

UN QUARTIERE POPOLARE

I fratelli Mattei erano figli di Mario, segretario della sezione di Primavalle del Movimento sociale italiano. Una famiglia dichiaratamente di destra (pure Virgilio era un militante, circolano ancora sue foto con Giorgio Almirante), ma anche una famiglia proletaria in un quartiere popolare: Mario che faceva il netturbino, sua moglie Anna, sei figli.

In piena notte, alcuni militanti dell’organizzazione di estrema sinistra Potere operaio versarono della benzina sulla porta di casa Mattei, per darle fuoco. I responsabili dell’attentato non hanno mai ammesso intenzioni omicide: dissero che volevano compiere un atto intimidatorio, ma qualcosa andò storto. Anziché una fiammata che avrebbe dovuto solo distruggere l’uscio, si sviluppò un incendio terribile che invase in pochi attimi il piccolo appartamento.

Mario Mattei, benché ustionato, riuscì a saltare dal balcone fino al piano di sotto e aiutò una delle figlie, Lucia, a fare altrettanto. Sua moglie uscì dalla porta principale con i due più piccoli della famiglia, Antonella e Giampaolo, quest’ultimo di appena 3 anni. Un’altra figlia, Silvia, si gettò dal terrazzino interno (il locale era al terzo piano) e nonostante la caduta attutita dai fili del bucato, finì in malo modo sul cortile e riportò gravi fratture.

INTRAPPOLATI 

Purtroppo Virgilio, il fratello maggiore, cercò scampo verso una finestra che dava sulla strada e questo segnò la condanna sua e del piccolo Stefano che l’aveva seguito, perché l’incendio gli impedì di tornare indietro. L’unica speranza sarebbe stata buttarsi da quell’altezza, come urlava la gente che nel frattempo era arrivata dai palazzi vicini. Virgilio non lo fece per restare col fratellino. La foto del suo volto annerito dal fumo, proteso dal davanzale dove è morto carbonizzato, è una delle immagini più crudeli degli anni di piombo.

La storica e drammatica foto del rogo di Primavalle scattata da Antonio Monteforte la notte del 16 aprile 1973
La storica e drammatica foto del rogo di Primavalle scattata da Antonio Monteforte la notte del 16 aprile 1973
La storica e drammatica foto del rogo di Primavalle scattata da Antonio Monteforte la notte del 16 aprile 1973

Su YouTube si ritrova facilmente ancora oggi il servizio con cui la mattina dopo il telegiornale della Rai raccontò i fatti. Un giovane Bruno Vespa aprì il resoconto mostrando il velo bianco che qualcuno aveva messo sul cadavere di Virgilio Mattei ancora lì, appoggiato alla finestra. Una vicina di casa, intervistata, descriveva quegli attimi terribili in cui anche lei, scesa in strada, lo esortava a saltare: “Ho visto il ragazzo grande che spegneva continuamente le fiamme sul corpo del piccolo, e poi su di sé. Tutti gli dicevamo: buttati, buttati. Ma non si è buttato, credo per tentare di salvare il ragazzino”.

RIVENDICAZIONI E DEPISTAGGI

Un cartello vicino al luogo del duplice omicidio rivendicò l’attentato a una certa Brigata Tanas, parlando di “giustizia proletaria”. Le indagini puntarono su tre esponenti di Potere operaio, ritenuti gli autori materiali della strage: Achille Lollo, Manlio Grillo, Marino Clavo. Solo il primo venne arrestato, perché gli altri furono aiutati a fuggire all’estero dalle sigle della sinistra extraparlamentare. I vertici di Potere operaio (tra cui Lanfranco Pace, Franco Piperno e Valerio Morucci) capirono subito che le responsabilità erano da cercare in casa loro: tanto che  Morucci – che nel 1978, passato alle Brigate Rosse, sarà tra i protagonisti del sequestro Moro – fu incaricato di ottenere la confessione dei tre compagni, anche minacciandoli con una pistola. Ma riuscirono anche a far passare su alcuni organi di stampa l’ipotesi che l’attentato a Mattei fosse una vendetta interna al Msi.

Non era così, e molti anni dopo Lollo ammise di aver messo a segno l’attentato insieme a Grillo e Clavo, con la complicità di altri tre compagni. Ha però sempre negato che i vertici di Potere operaio fossero i mandanti. Negò anche di aver fatto scivolare la benzina sotto la porta di casa Mattei, cosa che fu decisiva per far divampare le fiamme ben oltre l’ingresso: i tre attentatori, disse, fuggirono lasciando lì la tanica piena dopo aver rotto per sbaglio gli attrezzi per l’innesco. Ma l’ipotesi che la benzina sia stata versata e incendiata da altri, dopo che il commando si era allontanato, non ha mai trovato riscontro.

NESSUNA PENA SCONTATA

Accusati di strage nel processo, Lollo, Grillo e Clavo furono assolti in primo grado per insufficienza di prove e condannati in appello a 18 anni per omicidio colposo e altri reati. Le pene, rese definitive dalla Cassazione nel 1987, non sono mai state scontate perché tutti i colpevoli erano latitanti: anche Achille Lollo era riuscito a riparare in Brasile prima della sentenza d’appello. Nel 2005, poi, le condanne sono state dichiarate estinte per prescrizione; e un tentativo di riaprire l’inchiesta indagando sugli altri tre chiamati in causa è presto finito sul binario morto dell’archiviazione. Lollo è rientrato nel 2011 in Italia dove è morto dieci anni dopo, Grillo è sempre rimasto in Nicaragua, di Clavo non si sa più niente.

Achille Lollo nel 1975, durante il processo per la strage di Primavalle
Achille Lollo nel 1975, durante il processo per la strage di Primavalle
Achille Lollo nel 1975, durante il processo per la strage di Primavalle

Ma anche se giustizia non è stata fatta, perlomeno non fino in fondo, qualche tentativo di rimarginare la ferita collettiva dell’odio che ha portato alla strage di Primavalle c’è stato. In particolare grazie alla collaborazione di Giampaolo Mattei, il più piccolo della famiglia, che nel 2008 ha accettato l’invito di Walter Veltroni di salire su un palco per abbracciare Carla Verbano, madre di Valerio assassinato nel 1980 dai Nuclei armati rivoluzionari, un gruppo di estrema destra.

Da sindaco, Veltroni aveva incontrato anche Anna Mattei, la madre dei due ragazzi uccisi. E l’aveva incontrata varie volte anche Giorgio Napolitano, che da presidente della Repubblica, nel 2013, quando la signora morì a 82 anni, scrisse una lettera toccante ai figli: “La dignità con cui ella ha vissuto quella terribile tragedia è rimasta per me un’immagine esemplare”.

Atti significativi ma non sufficienti, se isolati: perché senza il riconoscimento reciproco delle vittime della violenza, senza la condanna bilaterale di ogni tipo di violenza, nessuna pacificazione potrà essere reale. E nei giorni del cinquantenario della morte di Stefano e Virgilio Mattei, troppi casi di “memoria selettiva” da parte di politici e istituzioni inducono a pensare che il Paese non sia ancora pronto a fare davvero i conti con i momenti più oscuri della sua storia.

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