I primi spostamenti cominciano all’inizio degli anni Sessanta, il boom si registra nel 1969, quando partono ben 500 operaie, negli anni ’80 la media è di circa 130, e tuttora, ogni anno, ci sono un centinaio di sarde che vanno a fare la “stagione” nello stabilimento Ferrero di Stadtallendorf, in Germania, nel land dell’Assia.

Da allora a oggi qualcosa è cambiato, ma non troppo.

La storia di questa particolarissima migrazione internazionale, spesso tramandata di generazione in generazione, da nonna, a figlia, a nipote - già ampiamente descritta in una ricerca delle Università di Amburgo e La Sapienza di Roma e dibattuta in un convegno del Centro studi internazionali Sardegna-Estero Cedise riportato dal Messaggero Sardo nel 2012 - è stata (ri)analizzata di recente in un interessantissimo studio intitolato “Quando si spostano le braccia” (pubblicato sui Quaderni di Sociologia) curato dal sociologo dell’Università di Cagliari Marco Zurru e da Simonetta Murtas, che ha intervistato diverse donne, all’estero e a casa – impresa non sempre facile per la reticenza delle protagoniste.

Michele Ferrero apre l’industria in Germania nel 1956 e, per riuscire a mantenere alta la produzione – i suoi Mon Chèri hanno infatti un enorme successo sul mercato – e non avendo a disposizione sufficiente manodopera locale, inizia a reclutare italiane, prima dal Piemonte, poi dalla Puglia, infine - poiché queste erano “inaffidabili” perché avevano mariti e figli -  dalla Sardegna, principalmente dal Medio Campidano e dal Sulcis, tra i 19 e i 35 anni, con basso livello di istruzione e appartenenti a famiglie povere.

“Le competenze richieste per svolgere il lavoro alla Ferrero sono pressoché nulle”, spiega la ricerca, “e la mobilità è sempre stata coordinata, pilotata e protetta, con severe regole comportamentali mirate al controllo della vita sociale anche fuori dal posto di lavoro”.

Dai racconti delle donne emerge una realtà occupazionale drammatica nell’Isola: retribuzioni misere, nessuna tutela, maltrattamenti, umiliazioni, condizioni di lavoro al limite dello schiavismo, lunghi periodi di disoccupazione. “Tutti elementi che segnano l’impossibilità di programmare e attuare un progetto di vita autonoma in Sardegna e che hanno in gran parte pesato come push factor sulla decisione di partire”.

Oggi – spiega Zurru – lo stipendio di queste operaie va dai 1.500 ai 2.300 euro netti al mese a seconda della mansione, con viaggio, vitto e alloggio a carico dell’azienda. Insomma, un trattamento di tutto rispetto, per quanto si tratti di una catena di montaggio, con quello che comporta in termini di ripetitività, alienazione e noia.

“Ci sono giorni che non vedi l’ora di andare via perché è veramente stressante, a seconda delle postazioni, puoi stare anche ore seduta, ferma a guadare milioni e milioni di cioccolati che passano, ed è pesantissimo, oppure quando sei alle macchine, se girano male devi correre ininterrottamente per otto ore da una parte all’altra. Insomma, ci sono giorni che non ce la fai, assolutamente”, dice Maria (nome di fantasia), alla Ferrero nel 2007.

Per quanto riguarda il reclutamento, fino alla metà degli anni ’80 la Ferrero inviava nell’Isola dei responsabili locali che, accompagnati da suore laiche, andavano nei vari paesi e organizzavano le visite e i colloqui con i genitori delle ragazze. “Questi incontri servivano a verificare l’affidabilità e la serietà reciproca, e a illustrare le condizioni di lavoro e di ospitalità presso Villa Piera, un vero e proprio collegio gestito da un ordine religioso”. Da sempre, infatti, una delle condizioni per l’assunzione delle operaie sarde prevede l’obbligo di soggiorno – per l’intera stagione lavorativa – a Villa Piera (una foresteria fondata su volontà di Piera Ferrero, la moglie del proprietario) e la clausola di nubilato.

Oggi le ragazze che vogliono fare questa esperienza contattano direttamente i responsabili delle risorse umane e si autocandidano, sono sempre tenute ad alloggiare a Villa Piera (che però non e più guidata da suore) e non devono necessariamente essere single, anche se non avere una famiglia sarebbe una situazione gradita alla società, in quanto matrimonio e maternità possono ridurre l’impegno in fabbrica o far terminare il contratto prima del tempo.

Una volta firmato il contratto, viene fissato l’appuntamento per la partenza secondo un modello “package and go” – prosegue lo studio - il punto d’incontro è l’aeroporto di Cagliari, dove un volo privato porterà le ragazze in Germania, a Francoforte e poi in bus a Stadtallendorf. In tutto, circa quattro ore di viaggio.

Per le sarde l’impiego va da luglio a dicembre anche se, fino ai primi anni del 2000, è capitato che venisse offerta l’opportunità di arrivare fino a metà marzo. La settimana lavorativa, dal lunedì al venerdì, è divisa in tre turni: uno mattutino (5.20-13.50), uno serale (13.50-22.20), e uno notturno (22.20-5.20).

“Dentro la fabbrica ci sono regole comportamentali, le parolacce non le puoi dire, non puoi alzare la voce, non puoi bere, non puoi mangiare, non puoi avere gioielli, orecchini o braccialetti, orologi o cose del genere; i capelli sempre legati con una cuffietta, zero profumi e trucco, perché potrebbero causare batteri, germi. Ci sono i camici bianchi che ti controllano. I camici bianchi sono i capi che si occupano della fabbrica e di tutti i problemi. Non puoi tenere una manica fuori dal camice. Se hai una felpa col cappuccio, il cappuccio deve stare sotto il camice, tutte queste cose qua. Devi lavare e disinfettare le mani ogni volta che vai in bagno, abbiamo sempre i guanti, è tutto molto igienizzato e controllato”, racconta Federica, alla Ferrero nel 2010.

Il controllo si estende a Villa Piera: tutte le diverse fasi delle attività giornaliera sono rigorosamente programmate in base a ordini prestabiliti e regole formali imposte dall’alto, e le varie attività sono organizzate per realizzare la piena tutela della moralità delle operaie e la disciplina del loro comportamento. Ovviamente molte delle attuali norme sono più soft di quelle ricordate da chi emigrò fino agli anni ’80 – molte erano costrette a scappare per avere un po’ di libertà e andare a ballare -  ma tuttora ci sono orari di rientro la sera, insomma, non è un albergo e si richiede disciplina.

Le donne sarde continuano ogni anno ad andare a Stadtallendorf, dopo sei mesi rientrano, ma alcune si sono sposate con colleghi e hanno messo su famiglia laggiù, pur continuando a fare le “stagionali”.

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