Certo che ha paura, all’inizio soprattutto era molta. Ma il suo attivismo è un «dovere». Nei confronti del suo Paese e di tutti i giovanissimi – ragazze e ragazzi - che ogni giorno scendono in piazza tenendo viva quella rivoluzione pacifica che mira alla caduta della teocrazia dei mullah. Pegah Moshir Pour ha 32 anni, è nata a Teheran ma vive in Italia dall’età di nove anni. E da qui fa tutto quello che può per tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su quello che succede in Iran. «Mio padre voleva darci un futuro diverso», e così molti anni fa sono andati via tutti, genitori e figli. Ma i ricordi sono ancora vivi. La scuola, soprattutto: «Ho frequentato le prime tre classi delle Elementari lì e poi ci sono tornata sempre, l’ultima volta nel 2018, per progetti culturali. Ho sfruttato la mia dualità». Che poi sarebbe la doppia cittadinanza, dunque doppia esperienza. «Ho studiato Ingegneria e anche Architettura, sono stata per quattro anni a Matera dove ho lavorato al progetto “Capitale della cultura”». Sì, proprio quello che aveva battuto Cagliari sul filo di lana. Sorride: «Lo ricordo benissimo». Dal 2020 è consulente alla multinazionale Ernst &Young. Delle sue origini le è rimasto tutto: «Parlo, leggo e scrivo in persiano. Anche la mia tesi di laurea, in collaborazione con l’Università di Teheran e la cattedra Unesco di Matera, mi ha portato nella mia terra visto che ho trattato il tema del giardino persiano».

La voglia di partecipare alla vita pubblica, il bisogno di dare il proprio contributo alla collettività non è nato ora. «Avevo 15 anni quando mi sono scontrata col problema della cittadinanza italiana, che non avevo». Ottenuta quella non è più stata con le mani in mano. «Mi sono candidata come rappresentante degli studenti al senato accademico dell’Università». E poi si è concentrata sui diritti negati, la tutela dei più deboli, l’empowerment femminile, la violenza di genere, «tema che non dobbiamo mai trascurare». E i diritti digitali. «Social media e accesso a internet sono un diritto». In effetti in Iran i social sono utilissimi, se non addirittura indispensabili, per divulgare la terribile situazione sociale. E anche la rivoluzione non violenta cominciata con la tragedia di Masha Amini, arrestata a 23 anni perché non portava correttamente il velo e morta nelle mani della polizia morale, ha varcato i confini attraverso i post su Instagram e Twitter. «I social hanno una doppia valenza: nei Paesi democratici li usiamo per condividere le nostre passioni, essere leggeri, goderci la vita. In Paesi come l’Iran sono l’unico mezzo di comunicazione con l’estero, servono per testimoniare al mondo intero quello che sta succedendo».  

Parla al telefono con voce squillante in un italiano perfetto Pegah Moshir Pour, e sa descrivere con parole semplici quanto la religione influisca sulla vita pubblica. «Prima della Rivoluzione del 1979 c’era il libero culto, e le basi culturali dell’Iran vengono dal persiano, arabo e islam non hanno mai attecchito nella gran parte della popolazione. Poi però sono stati imposti alcuni dogmi religiosi, tra questi l’obbligo del velo, e siccome l’islam prevede la libera scelta è un obbligo antireligioso quello voluto da Khomeini. È dal 1979 che le donne combattono: velo, aborto, accesso alla politica. E ora la Generazione Z attraverso i social vede come i giovani vivono nel mondo, i fidanzati passeggiano mano nella mano, per fare un esempio che sembra banale». E dire che l’Iran è un Paese colto: «Vero. Il 97 per cento delle donne sono alfabetizzate, il 67 per cento sono laureate, di queste il 70 per cento nelle materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) che è l’opposto di quanto avviene in Europa». C’è un perché. «Lo studio è un modo per emanciparsi, con una borsa di studio puoi andare fuori dal Paese e le donne, dagli scacchi alla matematica all’ingegneria, studiano per essere le prime perché vogliono partire e liberarsi del regime, molti iraniani frequentano le università europee, americane e canadesi». Come andrà a finire? «Sono speranzosa, innanzitutto per il coraggio che dimostrano ogni giorno gli adolescenti che vanno in strada a chiedere quello che spetta loro di diritto dalla vita. Ma anche perché per l’Iran è un momento critico sotto il profilo economico: l’inflazione è al 52 per cento, la disoccupazione colpisce più della metà della popolazione che per il 30 per cento ha meno di 30 anni, i pensionati non arrivano al decimo giorno del mese. Il malcontento è diffuso. La valuta iraniana è ai minimi storici, più di 20 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, un numero spaventoso. Tutti vogliono la caduta del regime perché non vedono altra via d’uscita».

Come si vivono da lontano le manifestazioni e la feroce repressione? I processi sommari, gli arresti, gli stupri, le esecuzioni? «Con grande dolore. Ma gli iraniani sono abituati alla politica del terrore. A settembre dopo l’uccisione di Masha Amini ho aspettato prima di espormi, proprio perché siamo abituati alle proteste: l’ultima, nel 2019, è finita in tre giorni con l’uccisione di 1.500 manifestanti. Ma ora è diverso, questa è una rivoluzione, il regime è al capolinea, abbiamo una maggiore consapevolezza, e tutto il mondo può vedere che cosa hanno fatto in 44 anni. Il Paese è una pentola a pressione cui è saltato il coperchio».

La paura la accompagna «ma vado avanti, sono in una situazione privilegiata perché ho accesso a internet, il mio attivismo è un dovere». E quando tutto sarà finito? Il tono della voce tradisce una speranza che è quasi certezza: «Parto subito. Destinazione Iran: non vedo l’ora».

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