Il 15 luglio 2021 la storia di un brutale triplice omicidio commesso nel sud Sardegna oltre trent’anni fa potrebbe cominciare a cambiare il proprio corso. Quel giorno a Roma i giudici della Corte d’appello decideranno quali testimoni chiamare in aula perché ricordino quanto accaduto ed eventualmente rivelino dettagli sinora mai venuti a galla, nel caso ve ne siano, sui fatti avvenuti all’ovile Cuile is Coccus l’8 gennaio 1991 sulle montagne tra Sinnai e Burcei. Se così fosse, la verità giudiziaria sulla strage potrebbe essere riscritta.

È quel che vogliono Mauro Trogu, difensore del pastore Beniamino Zuncheddu, 57 anni, in cella dal febbraio 1991 quale autore del triplice delitto (sta scontando l’ergastolo), e l’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni che, lette le carte presentate dall’avvocato, si è convinta dell’innocenza del detenuto di Burcei e ha chiesto la revisione del processo.

Il triplice delitto

La spedizione mortale era costata la vita a Gesuino e Giuseppe Fadda, padre e figlio proprietari dell’ovile, e al loro dipendente Ignazio Pusceddu, tutti di Maracalagonis, ma secondo procuratrice e avvocato non era stata portata a termine da Zuncheddu ed è strettamente connessa a un altro episodio criminale sviluppatosi tra l’ottobre 1990 e gli stessi giorni dell’eccidio: il sequestro dell’imprenditore Gianni Murgia di Dolianova. A loro dire la strage sarebbe da imputare - forse - a un bandito morto nel 2009 e in precedenza condannato a 30 anni proprio per aver fatto parte della banda che aveva rapito Murgia, liberato tre giorni prima della strage dietro un riscatto di 600 milioni di lire.

Il triplice delitto era stato messo a segno in pochi minuti da qualcuno arrivato all’ovile intorno alle 18. Gli investigatori avevano imboccato la strada dei contrasti tra allevatori. Da una parte i Fadda, che stavano a Cuile is Coccus; dall’altra gli Zuncheddu, che gravitavano attorno all’ovile Masone Scusa. Vacche uccise, cani impiccati, aggressioni fisiche, scazzottate, minacce di morte da entrambe le parti. Sino alla mattanza, della quale l’unico responsabile è stato individuato in Beniamino Zuncheddu: aveva 27 anni, era arrivato all’ovile su un vespino, aveva imbracciato il fucile e ucciso il capo famiglia lungo la  stradina di accesso alla proprietà; poi era salito verso lo stazzo e aveva fatto fuori il figlio del proprietario; quindi era entrato nel piccolo edificio sulla destra e aveva fulminato il servo pastore, che si era nascosto in una stanza interna; infine aveva sparato contro il genero del titolare, accucciato nella stessa camera. Il ragazzo però non era morto.

Il movente

Divenuto unico testimone oculare, era stato fondamentale per risolvere il caso: sentito dalla Polizia, dopo un mese di incertezze aveva indicato Zuncheddu quale autore della strage. La rivelazione, corroborata da diversi elementi d’accusa forniti dalla polizia giudiziaria, aveva convinto i giudici, secondo i quali Zuncheddu aveva il movente (tempo prima del massacro aveva rivolto una chiara minaccia alle vittime: «Se facessero a voi quel che fate alle vacche...»: così si era rivolto ai Fadda) e per quella sera si era costruito, in forte ritardo, un alibi ritenuto falso. Insomma: ergastolo. Ma Zuncheddu da 30 anni giura di essere innocente, tanto da non confessare nonostante questa decisione gli spalancherebbe le porte della libertà condizionale. E adesso gli inquirenti hanno deciso di approfondire alcuni aspetti di una vicenda che non li convince.

I dubbi attuali

Avvocato e procuratrice generale sostengono che l‘azione non fosse alla portata di tutti: il responsabile (o i responsabili, perché potrebbero aver agito più persone) sapeva quanti fossero e dove si trovassero i bersagli e conosceva i luoghi; le modalità a loro dire erano incompatibili col poco tempo che avrebbe avuto a disposizione Zuncheddu, partito da Burcei verso le 17,47 e rientrato in paese alle 19. Non solo: nella richiesta di revisione si parla di «assalto paramilitare», mentre il pastore di Burcei «aveva una spalla fuori uso dalla nascita». Zuncheddu in questa nuova ricostruzione diventa vittima di un errore giudiziario»: secondo la procuratrice Nanni tutto era stato orchestrato per indirizzare le indagini verso di lui pur di non farle arrivare al sequestro Murgia, nel quale erano implicati (si era scoperto solo tempo dopo) alcuni confidenti del discusso giudice istruttore Luigi Lombardini che, aveva ricordato la procuratrice, si «avvaleva di personaggi ambigui per lo svolgimento di indagini parallele» nei sequestri di persona, tra i quali alcuni condannati proprio per il rapimento Murgia.

Il sequestro Murgia

I collegamenti tra i due episodi sarebbero diversi. Uno dei carcerieri di Murgia aveva trascorso la latitanza nella zona dell’ovile; già all’epoca del sequestro i carabinieri di Dolianova ipotizzarono che il commando di sequestratori fosse passato a ridosso dell’ovile dei Fadda e indicarono il movente nell’eliminazione di testimoni pericolosi o di complici in disaccordo; uno dei sequestratori, confidente di Lombardini, prese possesso dell’ovile subito dopo gli omicidi. Murgia doveva essere rilasciato tre giorni prima del suo ritrovamento (che risale all’11 gennaio 1991), e il ritardo è stato legato a qualcosa accaduto il 9. L’uomo che più spesso parlava con l’ostaggio durante la detenzione gli aveva detto che lui e i complici non volevano dividere il riscatto <con altri> ed era stato definito da Murgia «agitatissimo e preoccupato» in un giorno che gli inquirenti avevano individuato proprio in quello successivo alla strage: lo era perché, sostiene la pg, «sapeva del sopravvissuto» all’eccidio «e temeva che questi avesse visto il responsabile e parlasse>. La sua descrizione tra l’altro secondo la Procura generale calzava con quella dell’omicida fatta inizialmente dal testimone della strage.

Il testimone e i dubbi

Poi un anno fa, in seguito alla riapertura delle indagini che hanno lo scopo di individuare eventuali altre persone partecipi della strage, sono emersi i dubbi sul sopravvissuto, che prima aveva detto di non poter riconoscere il killer perché aveva una calza da donna sul volto e poi dopo un mese aveva rivelato alla polizia di poterlo indicare. Una giravolta che oggi procuratrice e avvocato legano a presunte pressioni di un agente dell’interpol: il poliziotto secondo pg e avvocato si era convinto che Zuncheddu fosse colpevole» e aveva mostrato al testimone la fotografia di Zuncheddu prima del riconoscimento ufficiale, così da fargliela «memorizzare», fargliela «descrivere davanti al pm» e poi indicargliela tra le sedici dei possibili responsabili. Iniziativa che spinge oggi la procuratrice a definire inattendibile il sopravvissuto, e siccome il testimone è ritenuto l’unica fonte di prova a carico del pastore, il castello accusatorio viene a cadere.

Per pg e avvocato la condanna all’ergastolo è un abbaglio: il vero assassino per loro era più basso (come risulta dalla consulenza tecnica disposta in questi anni); durante la strage era già buio e il sopravvissuto non poteva vedere in volto l’assassino e comunque Zuncheddu non aveva bestiame e non aveva bisogno di terra, dunque non aveva motivo di uccidere. Ecco il perché della richiesta di revisione. La palla ora è nelle mani della Corte d’Appello di Roma.

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