La missione Usa di Napolitano nel 1978: criticato da Agnelli junior, invitato da Gianni
Le cronache dell’Unità del tour lanciato per spiegare all’America che il Pci non voleva nazionalizzare le industrie«Nei prossimi giorni, il compagno Giorgio Napolitano si recherà negli Stati Uniti per un programma di conferenze e seminari da tempo predisposto su invito dell’Università di Princeton. Il compagno Napolitano parteciperà a incontri organizzati in diverse località, tra cui New York e Washington, anche da altre Università e centri di ricerca e di dibattito (Università di Harvard, di Yale, Washington di Saint Louis, J. Hopkins, ecc.). Come si ricorderà, un invito e un programma analoghi erano stati predisposti nel 1975 ma caddero in quanto al compagno Napolitano non fu allora concesso il visto di ingresso negli Stati Uniti».
È il primo aprile 1978 e un piccolo box a pagina 14 dell’Unità segnala che un importante tabù politico è rotto. Il divieto di ingresso al quale accenna l’articoletto è del 1975, quando il presidente era il repubblicano Gerald Ford ma soprattutto il segretario di Stato americano era Kissinger: era stato soprattutto lui a negare l’ingresso negli Stati Uniti al 52enne esponente della leadership comunista italiana. Invece tre anni dopo alla Casa Bianca c’è il democratico Jimmy Carter e soprattutto il consigliere per la sicurezza nazionale è Zbigniew Brzezinski. Non solo: il Pci è in qualche modo una forza di maggioranza, visto che da pochi giorni garantisce l’appoggio esterno al governo Andreotti IV.
È soprattutto questo mutamento di contesto, insieme a qualche buona parola spesa proprio da Andreotti, amico-nemico dei comunisti, a consentire il via libera a quella visita che nei giorni scorsi, in morte di Giorgio Napolitano, è stata molto rievocata come un passaggio cruciale per l’accreditamento oltreoceano del Pci come interlocutore credibile, o quantomeno non come quinta colonna dell’Unione Sovietica pronta a espropriare i mezzi di produzione.
Eppure all’epoca quella visita senza precedenti ebbe un rilievo relativo (soprattutto se paragonato all’enfasi con cui oggi viene ricordata) su una stampa italiana che da due settimane era alle prese soprattutto con il rapimento di Aldo Moro. Il Corriere della Sera dedicò alla missione americana di Napolitano tre articoli (uno di un certo respiro, firmato dal corrispondente dagli Usa Ugo Stille, che di lì a nove anni avrebbe assunto la direzione del giornale) e per motivi evidenti fu soprattutto l’Unità, all’epoca diretta da Alfredo Reichlin, a pubblicare resoconti delle conferenze e degli incontri di Napolitano o anche solo boxini che annunciavano la tappa successiva. Otto pezzi in tutto, generalmente firmati o siglati dal corrispondente Alberto Jacoviello, tra i quali spicca per colore aneddotico quello dedicato alla conferenza di Princeton, pubblicato il 9 aprile in prima pagina e chiuso da «un episodio divertente. Parlando in un buon inglese un giovane studente ha creduto di cogliere, nella esposizione del compagno Napolitano, contraddizione tra gli scritti di Marx giovane e la politica attuale del PCI. Alla fine egli stesso si è presentato al dirigente comunista. Era Edoardo Agnelli, figlio di Gianni Agnelli».
A parte quella di essere contestato da sinistra da un rampollo di casa Fiat, la missione americana diede a Napolitano l’opportunità di smentire alcuni pregiudizi verso il Pci piuttosto radicati negli Stati Uniti, in particolare l’idea che a Botteghe Oscure si accarezzasse l’idea di collettivizzare i mezzi di produzione, e anche con modi spicci. Proprio a Princeton Napolitano sarà netto: «La realizzazione dei fini propri del socialismo va perseguita, questa è la nostra convinzione, nella democrazia e nel pluralismo, e non richiede il passaggio allo Stato o ad altre forme di proprietà collettive di tutti i mezzi di produzione: è sufficiente un certo grado di estensione del settore pubblico per poter indirizzare l’attività economica complessiva del paese, secondo gli interessi della collettività: la libertà della iniziativa economica è una libertà che va garantita, e con essa va garantito un ruolo del mercato».
E poi, per ribadire come la programmazione economica non avesse per forza il tanfo sulfureo dei piani quinquennali di staliniana memoria, una sottolineatura che Jacoviello riporta per esteso: «E per quanto riguarda gli indirizzi generali della politica economica il compagno Napolitano ha fatto osservare che sulla linea del controllo democratico del settore pubblico e sullo sviluppo di una politica di programmazione economica democratica “è possibile realizzare una sostanziale convergenza tra diverse forze politiche e anche partiti e sindacati: non solo nella tradizione dei partiti di formazione marxista, ma anche nella tradizione di altri partiti, del Partito repubblicano e anche della stessa Democrazia cristiana esiste il filone della programmazione, della politica di piano”». È un concetto che Napolitano ribadirà anche ad Harvard, insistendo «sul rilancio della politica di programmazione quale elemento caratterizzante della posizione dei comunisti e in questo quadro il significato che assume la politica di austerità».
L’altro grande equivoco da smentire è bifronte, cioè l’idea che il Pci possa arrivare in modo turbolento al potere approfittando dell’instabilità politica italiana oppure che tornerò a un ruolo di opposizione accettandolo come un destino ineluttabile. È un tema che torna spesso ma che troviamo espresso in modo particolarmente chiaro in un articolo del 20 aprile che traccia un primo bilancio della visita. Jacoviello dà conto dell’attenzione che i giornali americani hanno dedicato al comunista italiano, in tour fra atenei e redazioni, e riporta una domanda «rivolta al nostro compagno dall’ex assistente di Kissinger, Sonnefeldt» che come riporta il New York Times ha chiesto: «Se il Partito comunista è impegnato nel rispetto del sistema democratico perché si ritiene necessario che vada al governo piuttosto che esercitare una leale opposizione?». Secondo la cronaca di Jacoviello «il compagno Napolitano ha risposto osservando che prima dell’accordo di maggioranza il Partito comunista ha spesso favorito l’approvazione di leggi ritenute giuste, sia attraverso il voto favorevole sia attraverso l’astensione. Ed ha aggiunto che la situazione del paese è diventata così complessa e difficile e in crisi così pericolosa da rendere necessaria una stretta collaborazione tra le forze democratiche. E alla insinuazione secondo cui il PCI avrebbe minacciato il caos nel caso fosse stato costretto all’opposizione, Napolitano ha ribattuto prima di tutto smentendo che il PCI abbia mai fatto ricorso a minacce di questo genere». E infine un virgolettato che riassume una considerazione frequente di Napolitano in quelle giornate americane, cioè che i voti comunisti sono troppi perché li si possa lasciare nel freezer, sono un patrimonio che in un momento di crisi va investito insieme a quelli cattolici: «Le tensioni sociali e il disordine sono una realtà. E in una situazione di questo genere l’Italia non può permettersi il lusso di avere all’opposizione né il partito comunista né la Democrazia cristiana».
È sostanzialmente il messaggio conclusivo di una missione che ebbe anche momenti privati e informali altrettanto significativi. Ad esempio, come raccontò Napolitano a Ezio Mauro in un’intervista pubblicata su Repubblica nel 2013, durante la tappa a New York «fui condotto da Furio Colombo nella casa dell'Avvocato in Park Avenue. Sapeva che ero in America, voleva conoscermi. Parlammo vivacemente, dei miei incontri americani in primo luogo, ma anche dell'Italia naturalmente. Curioso, attento, gentile. E, di certo, uomo di visione internazionale». Fu il primo incontro di una frequentazione intensa e significativa fra il Signor Fiat e il primo comunista accolto ufficialmente negli States.
Quella cena Napolitano, presidente della Repubblica già da due anni, la rievocò nel 2008 a una conferenza in memoria di Agnelli organizzata a Villa Madama dall’Aspen Institute. Allo stesso tavolo come relatore sedeva Henry Kissinger, l’uomo che 33 anni prima gli aveva negato il visto ma che nel 2008 ormai da tempo lo definiva “il mio comunista preferito”.