Poniamo che una casa automobilistica metta le mani sui segreti produttivi di una concorrente, e grazie a questo riesca a sfornare vetture migliori, tali da rubare fette di mercato alla rivale. Pratica sleale, nessuno potrebbe dubitarne. L’intelligenza artificiale (IA) fa qualcosa di simile: riesce a perfezionare se stessa analizzando miliardi di contenuti disponibili nella rete. Anche quelli che dovrebbero essere coperti da diritti di proprietà intellettuale, per esempio gli articoli delle testate giornalistiche (ma anche tanto altro). Il risultato è che le applicazioni dell’IA possono offrire, in molti casi, prodotti finali capaci di fare concorrenza sleale a quegli stessi soggetti che hanno sfruttato per il proprio apprendimento.

Questo è, almeno, il punto di vista del New York Times, considerato ancora il giornale più autorevole degli Stati Uniti. La notizia che ha fatto scalpore negli ultimi giorni del 2023, nel campo dell’editoria, è la causa intentata dal quotidiano nei confronti di OpenAI e Microsoft, le compagnie che hanno sviluppato rispettivamente ChatGPT e Copilot: ossia le due applicazioni più diffuse della cosiddetta intelligenza artificiale generativa, capace cioè di elaborare testi, immagini, video e altro, in base alle richieste dell’utente, con qualità pari o addirittura superiori a quelli creati da un essere umano. Secondo il Times, che ha avviato un’azione civile davanti al tribunale distrettuale federale di Manhattan, milioni di suoi articoli sono stati utilizzati per “allenare” i software che ora competono col giornale stesso, fornendo servizi di informazione che possono sottrarre lettori e abbonamenti al NYT.

Tutelare il copyright

L’offensiva legale pianificata dal quotidiano di proprietà della famiglia Sulzberger è stata solo in parte una sorpresa: il problema del copyright sulle fonti dell’IA generativa è stato sollevato fin dalla comparsa della versione iniziale di ChatGPT, la prima applicazione che ha fatto conoscere l’IA al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. I programmi di questo tipo sono il frutto di ricerche che vanno avanti da decenni, ma un po’ in tutto il mondo l’IA è diventata un giochino di moda a partire dalla seconda metà del 2022, quando appunto OpenAI ha messo in circolo ChatGPT. In tanti si sono divertiti a dialogare col chatbot che risponde come se fosse una persona (e una persona con conoscenze sterminate), e tanti l’hanno subito utilizzato per produrre dei testi di vario tipo: dalle ricerche scolastiche alle tesi di laurea. Ma ovviamente le sue potenzialità sono molto più ampie, dal campo della ricerca scientifica e medica all’economia e tanto altro, anche per l’enorme capacità di analizzare grandi masse di dati in un tempo minimo.

Un'immagine simbolo dell'intelligenza artificiale generativa
Un'immagine simbolo dell'intelligenza artificiale generativa

Un'immagine simbolo dell'intelligenza artificiale generativa

Nel frattempo sono arrivare le nuove versioni, che non si limitano a produrre testi ma anche foto, filmati, persino musica. Proprio queste evoluzioni hanno reso più chiari i problemi già evidenziati dalla sola parte “scritta”: per dirne uno, è ora facile costruire un video in cui un personaggio politico pronuncia, con la sua voce e con un movimento delle labbra totalmente coerente, frasi che in realtà non ha mai detto. Ed è già successo che dei concorsi fotografici siano stati vinti da un’immagine che poi si è rivelata creata dall’IA.

A questi nodi si aggiunge quello del copyright. Che ovviamente non riguarda solo le testate giornalistiche: già varie cause sono state avanzate da scrittori, archivi fotografici, persino attori le cui performance vengono immagazzinate nei dati dell’intelligenza artificiale per insegnarle a esprimersi meglio. Ma l’industria dell’informazione è tra le più vulnerabili, per il rischio di minori ricavi determinati dal proliferare di offerte di news generate dall’IA. Il New York Times è la prima azienda del settore ad aprire una battaglia legale contro i colossi dell’intelligenza artificiale, forse perché ha le spalle abbastanza larghe da sostenerne i costi e i contraccolpi. Potrebbe però non restare l’unica, specie se la sua causa dovesse fare da apripista per verdetti favorevoli agli editori.

La ricerca di un accordo

L’azione intentata dal NYT non contiene una domanda di risarcimento quantificata con precisione. Fa riferimento però a “miliardi di dollari in violazioni legali e danni” per “l’illegittimo utilizzo di opere del Times, dal valore unico”. È esplicita invece la richiesta a OpenAI e Microsoft di distruggere qualsiasi chatbot o bagaglio di dati che utilizzino materiali del Times protetti da copyright. L’atto presentato dai legali del quotidiano afferma che le due compagnie “cercano di approfittare gratuitamente dei massicci investimenti del Times nel suo giornalismo”, e “usano i contenuti del Times senza pagare, per creare prodotti che sostituiscono il Times e gli rubano audience”.

Microsoft non ha commentato la notizia, mentre una portavoce di OpenAI, Lindsay Held, ha detto che la sua azienda è rimasta “sorpresa e delusa” dalla causa legale: ciononostante, continuerà a “dialogare costruttivamente” col Times nella speranza di “trovare un modo per lavorare insieme con mutuo beneficio, come accade con molti altri editori”. In effetti anche il quotidiano newyorkese ha confermato di aver avuto nei mesi precedenti delle interlocuzioni sia con OpenAI che con Microsoft per raggiungere un accordo commerciale, ma senza arrivare a niente. La strada dei tribunali, quindi, potrebbe esser stata scelta per forzare i due colossi dell’IA a sedersi a un tavolo e riconoscere al NYT un giusto riconoscimento per l’utilizzo delle proprie opere. Tutto lascia pensare che questo sia solo l’inizio di una lunga guerra.

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