Qualsiasi aspetto avrà il Metaverso, somiglierà al futuro. I nostri avatar tridimensionali si incontreranno (e si parleranno, si toccheranno) in mondi virtuali elaborati da raffinatissime capacità di programmazione. Qualcuno li immagina simili alle atmosfere di Matrix, altri come spazi razionalisti alla De Chirico. Che strano però pensare che un passaggio cruciale del percorso che ci porterà al Metaverso sia avvenuto dentro un tipico garage da quartiere residenziale americano, di quelli con gli attrezzi appesi al muro e una luce fioca a illuminare un disordine perenne.

Là dentro, a Long Beach (California), trascorreva le serate l’adolescente Palmer Luckey. Quando indosserete per la prima volta un visore per la realtà virtuale (se non è già successo), ricordatevi di questo nome. È meno famoso, anche in America, di quanto forse meriterebbe. Perché di fatto questo imprenditore lungimirante e discusso, che compirà 30 anni nel settembre 2022, è uno dei veri pionieri del Metaverso. Decisivo proprio nello sviluppo di quelle specie di maschere da sub (il paragone non è casuale) che consentono di sentirsi totalmente immersi in un altro mondo, avendo la sensazione di potercisi muovere dentro, di viverlo come se fosse vero.

Ragazzo prodigio

Nel 2014, appena 21enne, Luckey (il cui cognome, in inglese, suona come “fortunato”) ha venduto a Facebook per 3 miliardi di dollari la sua società che produceva gli Oculus, prima versione dei visori utilizzati ora per accedere al Metaverso. Se Zuckerberg è convinto di poterci rendere indispensabile questa nuova forma di socializzazione, è soprattutto grazie all’enorme qualità raggiunta dai visori. Le prime generazioni, utilizzate nei videogame, avevano prestazioni deludenti. Ora invece sono in grado di rendere estremamente credibile l’esperienza della realtà virtuale.

Il grande salto di qualità è dovuto in buona parte agli esperimenti di quel ragazzino nel suo garage di Long Beach. Figlio di un venditore d’auto e di una casalinga che ha provveduto alla sua istruzione fino ai 14 anni, appassionato di elettronica e informatica, all’età in cui di solito si riesce a malapena a completare un album di figurine realizzò un computer speciale per i videogiochi, con un display formato da sei monitor collegati, che valeva decine di migliaia di dollari.

A lui però non bastava guardare uno schermo, voleva entrarci dentro. Ossessionato dalla realtà virtuale, collezionò una cinquantina di modelli di visori: erano ingombranti e pesanti da tenere sulla testa, e in cambio offrivano un campo visuale ristretto e immagini senza contrasto, con tempi lenti di risposta ai movimenti. Perciò, a 16 anni decise di costruirsene uno da sé. Una maschera da sub fu esattamente la base per realizzarlo. Poi ne arrivarono altri, sempre più leggeri e performanti. Per finanziarsi, il genietto californiano lavorò come riparatore di computer e di iPhone, ma fece anche il giardiniere e l’istruttore di vela per ragazzi.

I primi tentativi

Nel 2010 si iscrisse alla California State University: ingegneria? No, giornalismo. Ma continuava la ricerca sulla realtà virtuale. Il suo sesto prototipo di visore, che chiamò Rift, sembrava finalmente davvero buono. Nell’aprile 2012 (occhio alle date: non aveva ancora 20 anni) Luckey creò la società Oculus VR e lanciò una raccolta fondi per avviare la produzione. “La mia era idea era realizzarne un centinaio”, racconterà a eurogamer.net, “e poi spedirli agli acquirenti come un kit da montare seguendo le mie istruzioni”.

Il primo modello commercializzato del visore\u00A0Oculus Rift (foto Amos da Wikipedia)
Il primo modello commercializzato del visore\u00A0Oculus Rift (foto Amos da Wikipedia)
Il primo modello commercializzato del visore Oculus Rift (foto Amos da Wikipedia)

Intanto però Rift fu notato dai protagonisti del mondo dei videogame. Un’azienda di punta lo utilizzò per la presentazione dei suoi nuovi giochi all’Expo dell’elettronica di Los Angeles, e Luckey fu invitato a mostrarlo in varie convention hi-tech. Dal crowdfunding sperava di raccogliere 250mila dollari: gliene arrivarono 2 milioni e 437mila. Ormai quel ventenne impacciato, abituato a farsi vedere in pubblico con magliette dozzinali e ciabatte infradito, era diventato di fatto un’industria. In pochi mesi Oculus vendette 17mila esemplari, raccolse altri 16 milioni di dollari per finanziare ulteriori espansioni e assunse decine di dipendenti.

Una crescita così rapida da attirare l’attenzione di Mark Zuckerberg. Oculus è passata sotto il suo controllo nel marzo 2014 e Luckey è stato assunto da Facebook. Il suo patrimonio netto, un anno dopo, è stato stimato da Forbes in circa 750 milioni di dollari. Ma, come accade nei film americani, alla prima parte della storia – in cui tutto va al meglio – segue la fase della caduta. I primi guai sono arrivati con la causa intentata dalla rivale ZeniMax Media per concorrenza sleale e presunti furti di segreti commerciali su tecnologie simili al Rift. Una corte escluse i furti ma condannò comunque Luckey e Facebook a pagare un pesante risarcimento, poi molto ridotto in appello.

Lo scontro e la politica

In seguito sorsero problemi con Zuckerberg. Nel 2017 Palmer venne licenziato e dovette lasciare la Oculus che aveva creato. Non è mai stato chiaro il perché. Secondo molti, c’entra il fatto che dal 2016 Luckey fosse diventato un accanito sostenitore di Donald Trump, con cospicue donazioni a gruppi che rilanciavano le false accuse di reato verso Hillary Clinton. Da allora, alcune aziende decisero di non far più supportare i visori Oculus ai loro software.

Zuckerberg ha negato ogni ragione politica per il licenziamento: anche quando, nel 2018, gli fu chiesto da Ted Cruz durante una testimonianza in Senato. Ma il Wall Street Journal ha svelato le email interne in cui i vertici di Facebook discutevano la questione, e le forti pressioni su Luckey perché sostenesse invece il candidato del Partito libertario, Gary Johnson.

Un'immagine recente di Palmer Luckey con una versione aggiornata del visore (foto Palmertech da Wikipedia)
Un'immagine recente di Palmer Luckey con una versione aggiornata del visore (foto Palmertech da Wikipedia)
Un'immagine recente di Palmer Luckey con una versione aggiornata del visore (foto Palmertech da Wikipedia)

Il giovane inventore, per altro, non è andato in rovina. Nel giro di tre mesi ha fondato Anduril, azienda di tecnologie militari che ha presto ottenuto importanti collaborazioni col governo: ha predisposto un programma per ostacolare l’immigrazione clandestina dal Messico, e dal 2020 è entrata nell’Advanced Battle Management System della US Air Force, che integra l’intelligenza artificiale nella difesa aerea. Nello stesso anno, in vista delle elezioni presidenziali, Palmer Luckey ha organizzato un grande evento a Newport Beach alla presenza di Trump: per partecipare si versavano quote da 2.800 dollari fino a 150mila. Ha concesso anche donazioni a vari candidati repubblicani, tra cui Ted Cruz.

Il film non è ancora arrivato alla fine, ma non si escludono nuovi colpi di scena. Facebook (ribattezzata Meta) sta investendo somme pazzesche sul Metaverso. Nessuno riconosce più a Palmer Luckey il ruolo che ha avuto in questa avventura; lui potrebbe consolarsi col fatto che, secondo gli ultimi calcoli, il suo patrimonio personale lo colloca a una manciata di milioni dall’ingresso nel club dei miliardari. Ma non dimentica. In un tweet recente ha ironizzato sul Metaverso (“oggi è diventata una parola di moda”). In un altro ha ammonito: “Non dimenticare mai la gente che ti ha trattato come una merda dopo che ha pensato che non gli saresti stato più utile”. Non ha sentito il bisogno di specificare a chi alludesse.

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