“Sento in me un potere che devo sviluppare, un fuoco che forse non devo spegnere ma devo alimentare, anche se non so a quale risultato mi porterà”. Nelle lettere al fratello Theo, Vincent Van Gogh non sapeva ancora dove sarebbe arrivato. Lo possiamo dire noi, fruitori incantati dalla sua genialità: è un risultato straordinario. Chi ha la fortuna di visitare la mostra, organizzata a Palazzo Bonaparte a Roma in occasione dei 170 anni dalla nascita dell’artista, proverà emozioni uniche, quella sorta di rapimento dell’anima che solo l’arte sa regalare.

La mostra, visitabile fino al prossimo 26 marzo, è prodotta da Arthemisia, realizzata in collaborazione con il Kröller Müller Museum di Otterlo ed è curata da Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti. Cinquanta opere in un percorso espositivo a tappe secondo i periodi e i luoghi in cui il pittore visse; un viaggio nella sua vita arricchito con gli scritti e le citazioni tratti dalle lettere al fratello Theo.

Pubblico alla mostra a Roma (foto V. Pinna)
Pubblico alla mostra a Roma (foto V. Pinna)
Pubblico alla mostra a Roma (foto V. Pinna)

Si inizia con il periodo olandese in cui protagonisti sono il lavoro della terra, la gente misera ritratta nella quotidianità. Ed ecco i volti segnati dalla fatica, i contadini intenti a lavorare nei campi, i tessitori e i vecchi piegati su se stessi. Spicca la “Testa di donna con cuffia bianca” una contadina che poi ricompare anche al centro nel dipinto “Mangiatori di patate”. Povera gente a cui Van Gogh riconosce grande dignità. “Penso spesso che i contadini formino un mondo a parte, che da certi punti di vista è migliore del mondo civile” scrive in una lettera al fratello nel 1885.

Un anno dopo arriva a Parigi ed è l’esplosione dei colori e dei contrasti, con un valzer di gialli, blu, arancio e viola che ti fanno perdere in opere come il Prato. Un dipinto che conquista con delicatezza, sembra quasi di immergersi in una tavolozza di sfumature. E ancora L’interno di un ristorante, dove con la tecnica puntinista riesce a fondere il rosso e il blu nelle pareti in netto contrasto con il candore delle tovaglie bianche. Un’opera firmata in maniera non convenzionale. Nessun nome e cognome, Van Gogh lascia il suo segno riproducendo un’altra sua opera nella parete centrale del dipinto. Originale e unico anche in questo.

Il prato (foto V. Pinna)
Il prato (foto V. Pinna)
Il prato (foto V. Pinna)

Proseguendo il percorso, l’impatto è di quelli che tolgono il fiato: al centro della sala buia l’Autoritratto a fondo azzurro con tocchi verdi del 1887. “L’immagine dell’artista si staglia di tre quarti, lo sguardo penetrante rivolto allo spettatore mostra un’insolita fierezza, non sempre evidente nelle complesse corde dell’arte di Van Gogh. Rapidi colpi di pennello, tratti di colore steso l’uno accanto all’altro e una capacità di penetrare attraverso l’immagine un’idea di sé tumultuosa, di una sgomentante complessità” recita la presentazione accanto a uno degli oltre 40 autoritratti realizzati dal pittore, sempre fortemente interessato alla fisionomia umana.

L'Autoritratto a fondo azzurro con tocchi verdi del 1887 (foto V. Pinna)
L'Autoritratto a fondo azzurro con tocchi verdi del 1887 (foto V. Pinna)
L'Autoritratto a fondo azzurro con tocchi verdi del 1887 (foto V. Pinna)

Si passa al periodo di Arles, in cui diventano di nuovo dominanti i temi della vita rurale e ritorna Il Seminatore, un’opera che Vincent Van Gogh considera una sorta di studio, ne parla con gli amici e il fratello Theo. Sceglie una tela più grande, scriverà al fratello che gli sembra di riuscire meglio laddove lo spazio è più ampio. “Il quadro è diviso in due metà, è gialla la parte alta, il basso è viola. Ebbene i pantaloni bianchi riposano l’occhio e lo distraggono nel momento in cui il forte contrasto simultaneo del giallo e del viola lo disturberebbero” scrive al fratello. In realtà l’opera finale è diversa, viene modificata e proprio i pantaloni diventano blu e sembrano fondersi con la terra.

Sono questi gli anni dell’intenso rapporto con l’amico Gauguin, è forte il sogno di creare con lui una scuola del Mediterraneo. Ma sono anche mesi sempre più tormentati, l’equilibrio mentale vacilla, i disturbi si mostrano con prepotenza. Poi l’addio di Gauguin fino alla drammatica crisi culminata con il taglio dell’orecchio. Una notte che gli organizzatori della mostra raccontano in un video carico di pathos.

Nei primi mesi del soggiorno nell’ospedale, il pittore rassicura il fratello sulle sue condizioni ed è certo che riprendere i pennelli in mano lo aiuterà. “Lotto con ogni mia energia per padroneggiare il mio lavoro e mi dico che se vinco sarà il miglior parafulmine per la mia malattia”. Non può uscire dall’ospedale, ma può stare in quel giardino che diventerà protagonista ne Il giardino dell’ospedale a Saint-Rémy (1889) in cui le piante dai colori accesi sono in primo piano, sullo sfondo si intravede l’ospedale dalle pareti gialle. Un’opera che sembra rappresentare il tumulto interiore così come Il burrone un Vecchio disperato.

Il giardino dell'ospedale di Saint Remy (foto V. Pinna)
Il giardino dell'ospedale di Saint Remy (foto V. Pinna)
Il giardino dell'ospedale di Saint Remy (foto V. Pinna)

Tra le ultime tele esposte ecco Tronchi d’albero nell’erba: spiccano gli iris viola, i gialli e i bianchi dei fiori mescolati al verde del prato. E in primo piano i due tronchi d’albero, caratterizzati dalle pennellate di viola e arancio. Se per un attimo si prova a decontestualizzare la scena, guardando soltanto i tronchi sembra di essere davanti a un’opera astratta.

Il genio di Van Gogh inizia ad andare oltre l’impressionismo, è già oltre i confini di qualsiasi catalogazione di stili. I suoi dipinti emozionano, non basta guardarli: è necessario respirarli, annusarli e tuffarsi nella creatività di un pittore che, sia pure tormentato, ha trovato nell’arte la sua panacea. Muore il 29 luglio 1890, due giorni dopo essersi colpito al petto con la pistola. La bara venne ricoperta di girasoli, quei fiori gialli che amava e che in qualche modo lo hanno reso immortale. In vita vendette un solo quadro, la fortuna arrivò soltanto dopo grazie all’intraprendenza della cognata Joanna Bonger che in trent’anni donó e riuscì a vendere ben 192 dipinti e 55 disegni. Consacrando Van Gogh nell’olimpo dell’arte.

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