Nella notte dell’8 ottobre del 1967, quasi 56 anni fa, si scambiarono tante opinioni sulla Bolivia, sulla lotta militare e politica. Il ricercato appena finito in gabbia, Ernesto Che Guevara, il rivoluzionario nato in Argentina ma divenuto famoso in tutto il mondo per la guerriglia cubana, e l’ufficiale dell’esercito boliviano che lo catturò, Gary Prado Salmon, passarono la notte a parlare. Ora, il generale boliviano non potrà più ricordare quei momenti, ricostruiti più volte minuziosamente in interviste, libri e documentari. Con lui, scomparso in Bolivia, a Santa Cruz, lo scorso 7 maggio, se ne va un testimone di quegli anni difficili in Sud America, quando il mito del Che, argentino di Rosario prestato prima alla rivoluzione cubana e poi alle tante guerriglie di liberazione di molti altri paesi anche dell’Africa, finì il suo percorso terreno sotto il piombo dell’esercito regolare. Prado Salmon, morto all’età di 84 anni, era l’ufficiale a capo della pattuglia che catturò il Che ferito e stremato dalla guerriglia. Non fu lui, però, a rendersi responsabile dell’esecuzione di Ernesto Guevara, decisa dagli alti vertici dello Stato boliviano.

La cattura

I momenti salienti della cattura del mito della rivoluzione cubana sono stati ripercorsi più volte dal generale Gary Prado Salmon (anche in un racconto pubblicato qualche anno fa dal Financial Times) fino al 1988 nell’esercito boliviano, pur avendo trascorso gli ultimi anni di servizio, dal 1981, paralizzato a causa di un colpo di pistola accidentale alla spina dorsale. Di lui, dichiarato dal congresso del suo Paese eroe nazionale per il ruolo avuto nella cattura di Guevara, si riparlò nei primi anni Duemila, durante la presidenza di Evo Morales. L’ormai ex generale finì agli arresti domiciliari per il suo coinvolgimento in una cospirazione golpista e nel 2009 fu anche processato e condannato per terrorismo, accusa da cui venne però assolto poi nel 2020.

“Non sparate, io sono Che Guevara e valgo più da vivo che da morto”, avrebbe detto il rivoluzionario argentino, arrendendosi alle forze regolari boliviane. “Non si affanni capitano, è la fine. È finita”, avrebbe risposto Salmon nella tarda mattinata dell’8 ottobre 1967 durante la cattura.

Il racconto

Secondo quanto venne pubblicato negli anni scorsi dal Financial Times, quel giorno di autunno, i soldati “stavano controllando la strada della gola dello Yuro, un’area coperta da fitta boscaglia, rocce e alberi. Verso l’una, gridano, hanno due prigionieri. Sono salito di corsa per venti metri per andare a vedere e ho chiesto a uno dei prigionieri di identificarsi: Che Guevara, disse. L’altro era “Willy” (Simeon Cuba Sarabia), un altro guerrigliero”, raccontò molti anni dopo l’ufficiale. Prado Salmon non era certo dell’identità di Guevara, perché giravano voci su quattro o cinque potenziali “Che” presenti nella regione, e quindi chiese di dare una prova della sua identità. Si fece mostrare la mano destra perché, dalle informazioni impartite dal comando boliviano, si sapeva di una cicatrice. “C’era davvero”, raccontò Prado Salmon, spiegando che il rivoluzionario argentino non assomigliava per nulla alle fotografie circolate tra le forze regolari. “Era in condizioni pietose, sporco, puzzolente, sconvolto. Sulla sua uniforme indossava una giacca blu senza bottoni. Il suo copricapo nero era sporco. Non aveva neanche le scarpe, solo brandelli di pelli animali coprivano i suoi piedi. Indossava un calzino blu e uno rosso”. Era stato ferito al polpaccio destro mentre cercava di scappare.

La notte

Una recente celebrazione dedicata a Che Guevara a Cuba
Una recente celebrazione dedicata a Che Guevara a Cuba
Una recente celebrazione dedicata a Che Guevara a Cuba

Guevara e Prado Salmon trascorsero la notte in una scuola di La Higuera. Il Che venne sistemato in una stanza dove i militari, a turno per due ore, lo controllavano, dopo avergli dato un piatto di carne, patate e riso, caffè e sigarette.

Prado Salmon raccontò sul Financial Times di aver conversato sette o otto volte durante la notte con il mito della rivoluzione cubana. Voleva sapere perché il Che fosse andato a combattere in Bolivia. “Perché sei qui?”, gli chiese. “Non è stata una mia decisione, è stata presa ad altri livelli”, rispose senza specificare o ammettere un coinvolgimento di Fidel Castro, leader della rivoluzione cubana e presidente dell’isola caraibica. E quando l’ufficiale boliviano si rivolse a Guevara chiedendogli perché offrisse terra ai contadini quando già c’era stata una riforma molto profonda per cui nessuno si unì questa volta alla guerriglia, la risposta fu: “Sì, abbiamo sbagliato, avevamo avuto informazioni sbagliate”.

La mattina dopo, Prado Salmon lasciò la scuola per tornare nella valle a catturare il resto del gruppo che si trovava con il Che. Quando fece rientro a La Higuera, Guevara era morto. Il comandante del battaglione spiegò di aver ricevuto l'ordine di giustiziare il Che. Un ordine che arrivò direttamente dal presidente e dagli alti comandi militari e che fu eseguito nella stanza dove il Che aveva trascorso la notte. Morì al primo colpo. Senza alcun discorso di addio. Dopo è rimasto solo il mito.

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