Dopo la frutta e la verdura la filosofia del chilometro zero si fa strada anche per i fiori del futuro. La scelta ecocompatibile è destinata a cambiare la fisionomia dell’attuale mercato florovivaistico che mette in moto 55 miliardi di euro e, secondo le previsioni, crescerà ancora, intorno al 6 per cento l’anno. Adesso perché rose o altri fiori recisi arrivino a casa devono fare il giro del mondo. I percorsi sono incredibili, lunghi migliaia di chilometri. Thailandia, Colombia e Kenya, per via dei bassi costi della manodopera nelle serre dove spesso lavorano donne e bambini, sono i Paesi che più di altri li producono.

Gli steli colorati, raccolti perennemente al di là delle stagioni, nascondono con il fascino della loro bellezza una realtà piena di criticità perché nel mercato globalizzato qualunque fiore è richiesto in ogni momento e tanta produzione modaiola si accompagna a quella di C02, all’uso di concimi chimici e all’utilizzo di acqua in abbondanza. Insomma, un contesto ambientale per niente ecocompatibile dove alla coltivazione intensiva si sommano infelici condizioni di lavoro, anche di sfruttamento, e un business in cui i fiori acquistati a prezzi stracciati sono rivenduti all’asta. Per scardinare questo sistema, ancorato a un mercato vorace che si fonda sulle produzioni in Africa e Sud America per via delle condizioni vantaggiose, c’è un nuovo movimento che attecchisce anche in Italia. Si chiama Slow Flowers, avviato in America nel 2014 per iniziativa di una scrittrice, Debra Prinzing. Nella Penisola dove è approdato in tempi più recenti è declinato come Slow Flowers Itay. Si ispira alla stagionalità delle coltivazioni, al ritorno alla natura e a un approccio etico alle produzioni. Al bando l’uso di diserbanti e antiparassitari, come pure il ricorso a condizioni di lavoro poco rispettose dei coltivatori.

Gli agricoltori che aderiscono a Slow Flowers Italy – come riporta il manifesto dell’associazione – «si impegnano a non utilizzare pesticidi e concimi chimici recuperando metodi di coltivazione organici». E poi: «La coltivazione di essenze floreali ibride sarà affiancata dalla semina di erbe spontanee perché i campi in fiore possono attrarre e offrire rifugio alle api». L’idea di fondo è lo «sviluppo di coltivazioni di fiori locali ed ecosostenibili, con preferenza per le varietà stagionali e la distribuzione diretta ai clienti». Gli obiettivi? «Guidare la produzione e il consumo di piante e fiori verso scelte più rispettose dell’ambiente, del territorio, dell’uomo», come pure «sostenere la creazione di un mercato italiano di piante e fiori sostenibili, differenziato, riconoscibile e innovativo».

Il recupero del ritmo naturale andrebbe di pari passo con una nuova cultura del fiore. La filiera corta guiderebbe il settore del futuro, sottratto al contesto attuale dove dominano le multinazionali che producono e vendono sementi e i broker che mediano tra coltivatori e commercianti in una lunga catena: solo alla fine gli steli impacchettati nel cellophane arrivano a fioristi e clienti. Senza considerare che le produzioni sganciate dalla stagionalità impongono il ricorso a sostanze ritardanti e alle celle frigorifere per mantenere freschi i boccioli per più giorni, costretti come sono a viaggiare in tutti i Continenti a bordo di un Boeing prima di giungere in Italia, nel punto vendita sotto casa.

«Crediamo che una produzione floreale in equilibrio con i ritmi naturali, non solo sia possibile, ma necessaria», sottolineano i promotori di Slow Flowers Italy che organizzano vari eventi e workshop per sensibilizzare gli operatori del settore e gli appassionati a riscoprire un lavoro ispirato alla natura e a una nuova cultura del fiore. Pazienza se per avere in casa un vaso con un bel mazzo di tulipani o di calle si dovrà attendere il loro tempo, come succede per ciliegie, pesche o altri frutti biologici. C’è una stagione per tutti, anziché il consumo indistinto con il caldo e con il freddo, alimentato da un business lontano dalla sostenibilità etica e ambientale.

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