Avolte basta la parola. Per la sensibilità politica italiana è un po' difficile capire perché fosse così importante che Trump dicesse o non dicesse qualcosa per ammettere la sconfitta. O meglio, per riconoscere il successo di Joe Biden. Lo chiamano il "concession speech": è il discorso con cui il candidato perdente (non solo nelle presidenziali) accetta l'esito del confronto elettorale e "concede", appunto, la vittoria al suo avversario. Non è un obbligo, non lo prevede alcuna norma, ma nella politica americana è ormai l'equivalente del triplice fischio in una partita di calcio: quello che sancisce la fine delle ostilità. Ecco perché il rifiuto di Donald Trump di pronunciare il concession speech dopo il suo duello con Biden ha di fatto tenuto aperta una gara che, altrimenti, sarebbe stata subito archiviata.

Com'è stato possibile che una prassi spontanea entrasse nella Costituzione materiale degli Stati Uniti, tanto da creare un problema se qualcuno si sottrae all'usanza? Lo si deve all'impostazione schematica della politica americana, sostanzialmente bipolare fin dai primi tempi dello Stato federale indipendente. Per certi versi le competizioni elettorali sono la prosecuzione con altri mezzi di un duello alla pistola. Infatti quella che viene considerata la prima "concessione" risale addirittura al 1896: è il telegramma che il candidato democratico William J. Bryan scrisse al repubblicano William McKinley, neoeletto presidente. Non solo congratulazioni: "Abbiamo rimesso la questione al popolo americano, e la sua volontà è legge". Rimarrà un archetipo per tutti i perdenti, perché il senso del loro atto di cavalleria non è solo rivolgere gli auguri di buon lavoro al futuro presidente: è ancora più importante riconoscere la legittimità del risultato elettorale, per favorire un insediamento pacifico del nuovo potere. In fondo il concession speech è rivolto ai propri sostenitori, più ancora che al rivale. Un invito ad accettare il verdetto, a interrompere la lotta e a riconoscere il presidente eletto come il proprio presidente. Ecco perché in tanti hanno chiesto che Trump rispettasse la tradizione.

Da Bryan in poi, del resto, tutti gli sconfitti sono passati attraverso questa prova, che nel tempo è diventata sempre meno un fatto privato tra i due contendenti, e sempre più un fatto pubblico. Anche grazie ai mass media: il primo a pronunciare il concession speech alla radio fu nel 1928 il democratico Al Smith in favore di Herbert Hoover, e sempre un democratico (Adlai Stevenson) portò la tradizione in tv, nel 1952, dopo l'elezione del repubblicano Dwight Eisenhower. Con grande fair play, raccontano le cronache: "Ciò che ci unisce come americani è più grande di ciò che ci divide come partiti", disse.

In effetti, parlare in pubblico della propria sconfitta non è semplice: ma spesso consente, a chi non può entrare nella storia con una vittoria, di riuscire a farlo dimostrando di saper perdere. Tra i migliori nel genere, il commovente discorso di John McCain nel 2008 dopo la vittoria di Barack Obama: "Questa è un'elezione storica", ammise il senatore repubblicano, "e riconosco il significato speciale che ha per la comunità afroamericana. Farò tutto ciò che posso per aiutare il presidente Obama a guidare il paese, e chiedo a tutti gli americani che mi hanno sostenuto di unirsi a me in questo sforzo". In un passaggio, tra l'altro, McCain citò "il senatore Joe Biden, mio amico di vecchia data", che quella sera divenne vicepresidente.

È ancora più difficile uscire di scena dignitosamente per un presidente che perde dopo un solo mandato, visto che di solito l'uscente rivince. Ammirevole il sorriso sereno con cui George Bush padre cedette la Casa Bianca a Bill Clinton, nel 1992, nonostante i sondaggi che fino a poche settimane prima lo davano favorito: "Il popolo ha parlato, e noi rispettiamo la grandezza del sistema democratico. La nostra amministrazione lavorerà col team del governatore Clinton per garantire la più tranquilla transizione del potere". Non esattamente lo stile di Trump, repubblicano anche lui. Dopo una citazione di San Paolo ("abbiamo combattuto la buona battaglia, abbiamo conservato la fede"), Bush aggiunse: "Vi chiedo di sostenere il nostro nuovo presidente, al di là delle nostre differenze". Più addolorate, ma altrettanto eleganti, le parole di un altro presidente bocciato dopo il primo mandato, il democratico Jimmy Carter, sostituito da Ronald Reagan nel 1980. Carter aveva a sua volta battuto quattro anni prima un uscente, Gerald Ford, ma curiosamente in quell'occasione il concession speech era stato pronunciato dalla moglie: grazie a una laringite, Ford aveva potuto sottrarsi alla fatica. Le immagini di allora mostrano lo sforzo della First Lady di piegare verso un sorriso le labbra altrimenti indirizzate a una smorfia di disappunto, mentre alle sue spalle il marito sembra sul punto di cedere alle lacrime. Altra curiosità, nel 2000 il democratico Al Gore fece due volte l'ammissione di sconfitta: una durante lo scrutinio, che vedeva in vantaggio George Bush figlio, ma poi Gore ritrattò quando emerse l'incertezza sulla Florida. Alcune settimane dopo, quando si chiuse la partita dei ricorsi, l'ex vice di Clinton parlò alla nazione, riconoscendo la vittoria di Bush.

Certo, non è semplice trovare le parole. In genere chi perde preferisce parlare della vittoria altrui, più che definirsi sconfitto. Gli appassionati del genere ritengono che solo Hillary Clinton nel 2016 abbia pronunciato le parole "I'm sorry", mi dispiace: forse non è un caso che l'unica donna candidata alla presidenza sia stata capace di svelare i propri sentimenti di tristezza, pur all'interno di un ragionamento impeccabile sotto il punto di vista politico e della lealtà verso il vincitore, Donald Trump.

Anche in Italia negli ultimi anni si è affermata in qualche modo la pratica del "discorso della sconfitta", ma non con la forza quasi cogente che ha assunto negli Stati Uniti. Del resto siamo il Paese del proporzionale, abituato per decenni a sentir parlare di "buona affermazione" anche i leader dei partiti col 2 per cento. L'avvento del maggioritario ha portato con sé l'abitudine di riconoscere la vittoria dell'avversario, ma funziona soprattutto nelle reali competizioni tra persone, come quelle per scegliere sindaci e presidenti di regione. Alle elezioni politiche, l'unico vero concession speech è considerato quello del 2008 di Walter Veltroni, non a caso il più americano degli esponenti del centrosinistra. In quell'occasione, il candidato premier del Pd non poté che riconoscere la vittoria di Silvio Berlusconi, riferendo - proprio come accade di solito negli Stati Uniti - di averlo chiamato poco prima al telefono per augurargli buon lavoro. Ma non fu un'orazione memorabile.

Qualcosa di simile, ma con più pathos rispetto a Veltroni, fu il discorso di Matteo Renzi dopo il referendum del 4 dicembre 2016, in cui fu bocciata la revisione costituzionale da lui voluta. Non aveva allora un rivale a cui concedere la vittoria, ma era un voto così personalizzato (per colpa dello stesso premier) che Renzi fu costretto a lasciare Palazzo Chigi. Non la politica però, nonostante avesse in precedenza annunciato di volersi ritirare a vita privata se non fosse passata la sua riforma. Una promessa avventata, un errore che le vecchie volpi della politica americana, maestri della retorica elettorale, non avrebbero mai fatto.
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