Il pallone come ragione di vita, unica donna in un mondo dove giocare al calcio è ritenuta roba da uomini. Correre coi pantaloncini non sta bene, i maschi guardano e giudicano. In Palestina i diritti sono pochi, i controlli tanti e i campi sportivi di fatto inesistenti. Eppure la forza d’animo ha consentito a Natali Shaheen di superare (quasi) ogni ostacolo.

Da un campetto in asfalto è arrivata nella prima rappresentativa femminile del suo Paese, ha disputato il primo campionato locale, si è laureata, ha fatto la volontaria. Infine nel 2018 è sbarcata in Sardegna, a Sassari, dove ha giocato con diverse squadre e oggi fa la centrocampista-attaccante per la Real Sun Service, club in Eccellenza. «Sono stata accolta benissimo» spiega la ragazza, nata a Gerusalemme 29 anni fa ma sempre vissuta a Gerico, in Cisgiordania, dove la tensione si è sempre tagliata a fette. Ma la situazione è peggiorata da quando, il 7 ottobre, è scoppiata una guerra sanguinosa e feroce. «Quel che sta accadendo è orribile, non si può descrivere», rimarca Natali, sbarcata nell’Isola «per fare un dottorato di ricerca in Scienze umanistiche e sociali dopo la laurea quadriennale in Scienze motorie in Palestina. La tesi era incentrata su come promuovere il calcio femminile nel mio Paese».

Perché in Sardegna?

«Tra il 2015 e il 2016 mi allenavo a Ramallah, a circa 45 minuti da Gerico, ma per i controlli israeliani, che durano ore, a volte non potevo arrivarci o non riuscivo a rientrare a casa. Nella mia città c’era una squadra di atletica leggera e capitava mi allenassi lì. Con quel team operava l’associazione sarda Ponti non muri che sostiene la causa palestinese e aiuta l’orfanotrofio di Betlemme: voleva portare alcune ragazze a Sassari perché si allenassero col Cus. Sono andata nel 2015 e nel 2016 per quindici giorni preparandomi con la squadra maschile under 17 del Cus Sassari e l’anno seguente con la Torres calcio a 5 femminile. A fine 2016 mi sono laureata in Palestina, nel 2017 ho vinto una borsa di studio e nel 2018 grazie all’associazione sono arrivata qui».

Natali Shaheen
Natali Shaheen
Natali Shaheen

Dove ora gioca.

«Sì, dal 2020 lavoro come segretaria nell’azienda Piscina arcobaleno ma continuo a giocare. Sono stata alla Torres di calcio a 5 in Serie A2, poi nella Serie C di calcio a 11 sempre con la Torres. Dal 2020 allo scorso luglio ho allenato la squadra maschile di esordienti e pulcini del Latte Dolce, nel 2022-23 sono stata all’Athena Sassari di calcio a 5 in Serie A2. Ora sono alla Real Sun Service in Eccellenza. Sono centrocampista ma anche attaccante, il mio ruolo principale. Quest’anno ho segnato otto gol. Mi diverto molto, l’obiettivo è andare in Serie C».

Come nasce la passione? «

A Gerico non c’erano squadre ma studiavo alla “Terra Santa”, l’unica scuola con classi miste pur con poche ragazze. I maschi volevano sempre giocare a calcio e me ne sono innamorata, anche se era strano che una donna giocasse. Nessuna lo faceva. C’era un piccolo campo di asfalto con due porte, stava proprio davanti a casa mia e ci andavo anche dopo le lezioni. Con i compagni, gli amici. Unica donna. I miei genitori mi avevano regalato il pallone. Ho cominciato a sei anni, durante la seconda intifada, nel 2002. Quando la situazione è un poco migliorata l’Università di Betlemme ha creato una squadra femminile. Poi ne è nata una a Ramallah».

C’era un campionato?

«All’inizio c’eravamo solo noi a Ramallah e le giocatrici di Betlemme. Poi siamo arrivati a cinque squadre. Quindi è nata la Nazionale palestinese e nel 2005 siamo uscite per la prima volta a rappresentare il Paese contro Iran, Giordania, Siria, Bahrein, Libano: eravamo 18 giocatrici. Io l’unica di Gerico. Avevo 12 anni». Ora sta a Sassari, lontano dalla sua terra. Cosa fa? «Dal 2021 faccio la segretaria nell’azienda Piscina arcobaleno. Serviva il permesso di soggiorno, non è stato facile ma ci siamo riusciti. E ho potuto anche continuare a giocare».

Torna spesso in Palestina?

«Almeno due o tre volte all’anno. In questo periodo dovrei essere lì, ho un progetto per promuovere lo sport e il calcio tra i bambini e le bambine con un’associazione americana. Ma la guerra ci ha bloccati».

Cosa sognava da bambina?

«Di diventare una calciatrice. E, come tutti i palestinesi, di vivere libera nel nostro Paese». Nel 2022 ha scritto il libro “Un calcio ai pregiudizi. Dalla Palestina alla Sardegna dribblando ogni ostacolo”.

Perché?

«Il primo argomento è “La Palestina esiste”. Perché per il mondo non è così. In Europa non compare nelle mappe. Parlo della storia della mia terra, della geografia, dell’apartheid, della società, delle religioni. Di come è nato il calcio in Asia, Europa, Palestina. Delle difficoltà che affrontano le donne che fanno sport nel mondo e nei Paesi islamici. Il ricavato servirà a organizzare un open day a Sassari e in Palestina per far conoscere il calcio».

In Palestina le donne non possono giocare?

«Ci criticano: è un gioco per i maschi, dicono, noi dobbiamo studiare, sposarci. Correre per strada con i pantaloncini non sta bene, gli uomini guardano e giudicano. Nei social ci sono tanti commenti negativi. Le infrastrutture sono poche, la priorità va ai maschi».

Come si vive laggiù?

«Sono cresciuta in Cisgiordania con i check point israeliani. Non possiamo uscire senza fare i controlli. Abbiamo il mare ma non ci consentono di andare. Per arrivare a Gerusalemme serve un permesso di Israele, che non sempre ci è concesso. Per allenarmi dovevo spostarmi da una città all’altra ma pur partendo da casa almeno tre ore prima non ero sicura di arrivare per tempo. A volte era tutto chiuso e non si passava. Sono arrivata qui e ho capito cos’è la libertà. Ora prendo l’auto e vado dove voglio: al lavoro, a pranzo, a fare commissioni. Esco con gli amici. Mi alleno senza pensieri. Si può programmare la vita. In Palestina no. Israele ha diviso il Paese in tanti settori. Quel che accade a Gaza è orribile, non si può descrivere. Un genocidio. Stanno uccidendo le persone. Sono senza acqua, internet, telefono, ospedali. Tanti genitori non hanno più figli, tanti bambini sono orfani. Tanti sogni sono stati distrutti».

Come ha trascorso il Natale?

«Il giorno della nascita del Salvatore è importante. Ma nessuno di noi può festeggiare vedendo quel che sta accadendo nel mio Paese. La mia famiglia è a Gerico, ho parenti a Betlemme. Ci sentiamo spesso. Ho nostalgia, certo. Soprattutto in questo periodo. Il Natale in Palestina è la cosa più bella. Ma oggi non si può fare festa». Cosa si augura per Palestina e Israele? «Per noi di vivere in libertà nella nostra terra. Di essere trattati come esseri umani. Di essere riconosciuti nel mondo. Nient’altro». 

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