Adesso ci troviamo in una strana terra di confine tra il sollievo e la paura. Perché il Covid sembra addomesticato ma temiamo un colpo di coda; e soprattutto, gli esperti ci hanno detto che questa non sarà l’ultima pandemia. Anzi: “Probabilmente la prossima è già in atto”, avverte Maureen Miller, epidemiologa della Columbia University di New York. Solo che non lo sappiamo ancora, non l’abbiamo intercettata. Più tardi lo faremo, peggio sarà.

Non è il panico l’obiettivo del monito lanciato da Miller, in un articolo pubblicato nei mesi scorsi sulla rivista online The Conversation. La sua analisi cerca di capire come si possa prevenire un disastro planetario simile a quello che abbiamo appena vissuto. Alcuni dati, fa notare la studiosa, portano a pensare che il virus Sars-Cov-2 (responsabile del Covid) circolasse tra gli umani, in particolare in Cina, molto prima di essere identificato a Wuhan. Un suo parente genetico è stato trovato nel 2015, nella provincia sudoccidentale di Yunnan, nel 3 per cento dei partecipanti a uno screening sulla popolazione che viveva vicino ad alcune colonie di pipistrelli che veicolano un coronavirus simile alla Sars.

“La sorveglianza ha fallito”

Il sistema internazionale di sorveglianza delle epidemie è basato in gran parte sulle rilevazioni di alcuni sintomi particolari da parte dei cosiddetti ospedali-sentinella, una rete che l’Organizzazione mondiale della sanità ha creato a partire dal 1947. Solo che, obietta Miller, quando i malati arrivano negli ospedali, l’epidemia ormai è già partita. E potrebbe essere troppo tardi per arginarla. Questo è quello che è accaduto con Sars-Cov-2, di fatto un caso di fallimento della sorveglianza internazionale, secondo l’epidemiologa statunitense. Anche perché, a differenza della Sars del 2003 e della Mers del 2012, il nuovo coronavirus non ha provocato subito alti livelli di malattia e di mortalità. Questo ne ha favorito la diffusione silenziosa.

Maureen Miller (dal sito della Columbia University)
Maureen Miller (dal sito della Columbia University)
Maureen Miller (dal sito della Columbia University)

Se c’è una cosa che abbiamo capito negli ultimi due anni è che siamo assai vulnerabili, perché il mondo globalizzato facilita la circolazione delle persone, delle informazioni e purtroppo anche dei virus. Rispetto al passato, nella risposta a simili minacce il fattore tempo acquista più importanza. Maureen Miller suggerisce perciò di affiancare, ai sistemi tradizionali di prevenzione, una più massiccia ricerca di anticorpi nella popolazione sana, per intercettare in anticipo quei virus potenzialmente dannosi, ma che ancora non hanno avuto ripercussioni sulla salute delle persone contagiate. Il monitoraggio dovrebbe essere condotto nelle zone del mondo in cui si registrano più spesso gli spillover, ossia i “salti” dei virus dagli animali all’uomo.

La buona notizia è che gli Stati si stanno sintonizzando su questa strategia. Anche l’Italia, come spiega il preside della facoltà di Medicina dell’Università di Sassari Giovanni Sotgiu, epidemiologo e docente di Statistica medica: “Qualche giorno fa il ministero della Salute ha attivato per la prima volta una epidemic intelligence, ossia un sistema di sorveglianza per identificare potenziali focolai epidemici nel territorio nazionale. È importante identificare precocemente l’eventuale evoluzione di nuove forme infettive che possano scaturire dagli spillover”.

Sotgiu condivide il ragionamento della collega newyorchese: “Ci sono due possibili sistemi di sorveglianza epidemica globale, complementari. Uno è la sorveglianza sindromica, con ospedali o strutture periferiche capaci di identificare sintomi e segni clinici atipici, facendo scattare ulteriori analisi per cercare gli eventuali agenti responsabili”. L’altro sistema è basato sulla sierologia: “L’analisi degli anticorpi in un certo numero di persone, per monitorare eventuali infezioni legate ad agenti biologici non identificati in precedenza”.

Giovanni Sotgiu\u00A0(foto archivio L'Unione Sarda)
Giovanni Sotgiu\u00A0(foto archivio L'Unione Sarda)
Giovanni Sotgiu (foto archivio L'Unione Sarda)

Nel mondo sono stati individuati vari hotspot, ossia zone in cui è maggiore la probabilità di spillover (Malesia, Cina, India e altre) per via di strette interazioni uomo-animale, specie nei mercati e negli allevamenti intensivi, senza adeguati controlli. Ma la sorveglianza sierologica si può fare ovunque: “In Italia si fa, ma forse non come si dovrebbe. Ora, dopo questa pandemia, gli Stati stanno sviluppando task force per gestire simili emergenze, e creare una rete internazionale che possa dare l’allerta qualora si verificassero situazioni atipiche”.

La prevenzione delle epidemie, sottolinea poi il professore sassarese, è strettamente legata ai temi della salvaguardia ambientale e del clima, su cui la comunità internazionale si sta interrogando: “Le condizioni climatiche e il rapporto spesso non naturale tra l’uomo e l’ambiente possono creare un terreno fertile per spillover e pandemie. Si pensi alle attività intensive nella zootecnia, al rapporto in certe aree geografiche tra i lavoratori e gli animali, in assenza di controlli veterinari accurati e protezioni”.

Un malato di Covid in un reparto di terapia intensiva (foto Ansa)
Un malato di Covid in un reparto di terapia intensiva (foto Ansa)
Un malato di Covid in un reparto di terapia intensiva (foto Ansa)

La salute animale e quella umana, del resto, non sono piani separati. Per esempio, la proliferazione di batteri resistenti agli antibiotici può essere aggravata dall’uso eccessivo di quei farmaci negli allevamenti. E anzi, non è escluso che la prossima pandemia sia di tipo batterico. “Prendiamo la tubercolosi”, dice Sotgiu, “che uccide ogni anno nel mondo un milione e mezzo di persone. Su circa 10 milioni di casi all’anno, 500mila sono dovuti alla tubercolosi Mdr, ossia Multidrug resistant: forme per le quali non abbiamo adeguati trattamenti. L’antibioticoresistenza può davvero alimentare la prossima epidemia globale”.

Le minacce in arrivo

Quanto ai virus, quello influenzale è il principale indiziato per una nuova pandemia: “Abbiamo avuto problemi importanti nel 2009, con l’influenza H1N1, ma in realtà è un virus che crea problemi ogni anno, perché muta facilmente e circola anche tra gli uccelli e i maiali: il rischio è trovare forme molto mutate e insidiose. Anche i coronavirus, trasmessi per via respiratoria, sono un pericolo. Ma la storia degli ultimi secoli ci parla soprattutto di grandi pandemie influenzali”. Pochi mesi fa il Center for Disease Control di Atlanta ha segnalato una forma atipica di H1N2 in Ohio legata ai maiali: “Un esempio di mutazione che può assumere carattere epidemico”.

Lavarsi\u00A0le mani: misura di prevenzione (Epa)
Lavarsi\u00A0le mani: misura di prevenzione (Epa)
Lavarsi le mani: misura di prevenzione (Epa)

Anche per queste ragioni è sensato conservare le misure di protezione che abbiamo contrapposto al Covid, come mascherine e divieto di assembramenti. “E il lavaggio accurato delle mani, che possono veicolare agenti patogeni trasmessi per via respiratoria”, aggiunge Sotgiu. Ora che ci siamo abituati, insomma, tanto vale continuare così: “All’inizio dell’attuale pandemia, molti Paesi asiatici hanno controllato molto bene la prima fase della diffusione proprio grazie alla consuetudine dell’uso delle protezioni individuali, dovuta alla grande paura provocata nel 2003 dalla Sars”. Ora che in Italia ritorniamo quasi alla normalità, con l’eliminazione pressoché totale delle restrizioni anti-Covid, varrà la pena di fare un piccolo investimento in pazienza: tener su le mascherine potrebbe creare una buona barriera contro il nuovo invasore che magari è già in circolazione, anche se ancora non sappiamo da dove arriverà.

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