È tra gli autori classici della letteratura italiana, ma sono soltanto i lettori – a 74 anni dalla morte - a celebrarne la grandezza. Sono ancora decine di migliaia le copie dei suoi romanzi vendute nelle librerie ogni anno, ma quanti volessero cercare i luoghi di Cesare Pavese rischiano di restare non poco delusi. Al di là del dolce paesaggio di colline delle Langhe piemontesi, la casa natale a Santo Stefano Belbo è un colpo al cuore, tanto è l’abbandono. Il portone chiuso e scrostato, gli infissi provvisori, muffa e polvere sulla facciata.

Il quadro sbilenco di un mondo contadino scomparso, quello che lo stesso Pavese ha raccontato in “La luna e i falò”, il romanzo capolavoro pubblicato nel 1950 che racconta di Anguilla, il protagonista, tornato nelle sue Langhe dopo essere stato in America. Lui stesso, rimasto sempre legato alla sua terra natale, tornò un’ultima volta a Santo Stefano Belbo prima di togliersi la vita. Era il 27 agosto del 1950 e la notizia della morte per suicidio del più importante e influente scrittore italiano dell’epoca, sconvolse il mondo intellettuale e politico. Cesare Pavese fu trovato cadavere in una camera d’albergo a Torino, aveva ingerito venti bustine di sonnifero e lasciato una raccomandazione scritta: «Non fate troppi pettegolezzi». I pettegolezzi ci sono stati, ripresi da tutti i giornali, e si è raccontato della sua ultima tormentata relazione con l’attrice americana Constance Dowling alla quale aveva dedicato la raccolta di poesie, e i versi stessi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. I pettegolezzi riportarono nella bocca di tutti anche le altre sue storie sfortunate, tra queste la più importante, quella con Tina Pizzardo – nata a Torino nel 1903, matematica e antifascista - che lui definì “la donna dalla voce roca”. «L’unica che Pavese abbia veramente amato», scrisse Davide Lajolo, suo biografo.

Senza farne mai il nome, ché neanche lo scrittore lo fece mai, a parte il fuggevole accenno alla destinataria di una delle poesie di “Lavorare stanca” chiamandola con un asterisco. Lei stessa per anni volle silenzio sul suo nome. Non parlò della sua relazione con lo scrittore. Non autorizzò la pubblicazione delle lettere a lei indirizzate; chiese a Einaudi alcuni tagli - non concessi - del diario di Pavese. Tina Pizzardo non sopportava affatto tutto l’impertinente chiacchiericcio dei biografi che la dipingevano come una dama crudele, quella che aveva inchiodato lo scrittore al non esser buono per una donna, condannandolo a quell’infelicità sentimentale che lo portò al suicidio, nel ‘50. Non sopportava, e non ci stette più a fare l’icona muta, dopo quel libro di Lajolo. «Con cui - dice - inizia la falsificazione del personaggio Pavese: si vuole provare che questi non ha amato che una donna, e sarei io quella». Non ci stette più, e pensò di scrivere non un contromemoriale, non un’autodifesa: un’autobiografia piuttosto (“Senza pensarci due volte”, edizioni Il Mulino) un po’ per guardarsi dentro, un po’ per raccontare finalmente in prima persona quello che altri, per anni, hanno raccontato di lei, e della sua vita.

«Tutta la mia vita - scrisse - è stata condizionata dalla scelta di essere antifascista (in un senso che va ben al di là dell’avversione al fascismo italiano) e di restarlo a prezzo di miseria, e di mia e altrui infelicità». Una scelta fatta nel ‘25 - anno in cui si laurea in matematica, col minimo dei voti per la vendetta di un professore che coltivava l’hobby di toccare le gambe delle allieve - con la passione, la leggerezza e, comunque, l’impegno, che faranno di lei una militante un po’ sopra le righe. E così, con la sua allegria, la sete di vivere e di conoscere, un viso caruccio e una ragionata filosofia sentimentale che la portava a vivere più amori contemporaneamente (fu anche compagna, infedele, di Altiero Spinelli), Tina Pizzardo affrontò a Torino - la sua città - il Ventennio fascista. E le perquisizioni, gli interrogatori, i pedinamenti, la sospensione dall’insegnamento, il carcere, e poi la sorveglianza speciale e la miseria che cercava di arginare dando lezioni in privato. Ma sempre la gioia di una escursione in montagna, di una nuotata e di una remata, in barca, sul Po.

Lo conosce qui Pavese – dispregiatore delle donne - e si rivedranno ancora, per remare. «E lui che mi comandava come un mozzo, e io che ubbidivo per fargli vedere che non ero come le altre». Si rivedono dopo un anno; lui innamorato di lei, lei innamorata (non ricambiata) di Henek Rieser, militante comunista di origine polacca. Per non star lì a piangerci su comincia la storia con Pavese, ma dopo otto giorni ci ripensa: «O amici o niente». E lui si dispera, dice che si ammazza. Un patto d’amicizia rotto più volte («Dai baci che mi vendicavano dell’altro, anche se, questo, era un amore... elusivo»), e più volte rinnovato «nel timore che lui faccia una pazzia». Fino alla rottura definitiva, appena Tina si accorge di aspettare un figlio da Henek - diventato suo marito nell’aprile del 1936 - dal quale si sente «voluta bene ma non amata». Pavese visse il tempo che gli restava, con la sua arte e i «suoi amori infelici». Ne ebbe tanti dopo Tina, e, scrisse lei, «delle sue donne io era la brutta copia, ma ero qualcosa di più: un’amica». Le altre no, nessuna. Per anni incastrata nella parte di “mandante” del suicidio di Cesare Pavese, Tina Pizzardo non ci sta più: ora è lei che punta il dito, con parole che sono pure la più tenera dichiarazione d’amore fraterno per l’amico: quelle donne «lo hanno lasciato morire, mentre, finché lui ha smaniato per me, ho saputo vigilare e salvarlo».

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