Un po’ per il sostantivo, positivo per definizione, un po’ per l’aggettivo, che richiama un’idea rassicurante di collettività, l’espressione “beni comuni” trasmette un certo senso di placidità, richiama un’idea di fruizione serena.

Eppure ha una robusta sfumatura tragica e un’eco allarmante che dovremmo ascoltare con più attenzione. Lo spiega efficacemente l’economista Vittorio Pelligra, docente all’Università di Cagliari e opinionista sull’edizione digitale del Sole24Ore e sull’Avvenire, nel suo “La cura delle radici – Beni comuni, bene comune”, pubblicato proprio dal quotidiano di riferimento della Cei con Vita e Pensiero. Dagli enigmatici monumenti dell’Isola di Pasqua alle “piccole tirannie”, Pelligra spinge di capitolo in capitolo il lettore su un’altalena che piomba nella preoccupazione e si inerpica verso la speranza razionale, parlando di riscaldamento globale e fisco, di luoghi comuni e buoni propositi in un viaggio che fa tappa tra i padri costituenti e Amartya Sen, senza rinunciare al vezzo di decollare da una citazione di Patti Smith: “Quale momento migliore per affrontare i problemi di quando la gente non ne vuole sentir parlare?”.

Lunedì 27 novembre a Cagliari, alla fondazione Siotto di via dei Genovesi 114, l’autore presenterà il libro e discuterà le sfide e gli allarmi che porge al lettore con il filosofo Stefano Pinna e la giurista Francesca Pubusa, per un appuntamento del festival di letteratura giornalistica “Liquida” coordinato da chi firma questa intervista.

Molti di noi, dopo il referendum sui servizi idrici del 2011, si sono fatti l’idea che i beni comuni siano sostanzialmente delle risorse che vanno sottratte alle logiche di mercato, e questo può distorcere i nostri ragionamenti. In effetti che cosa sono?

«Sono esattamente come i beni pubblici e i beni privati: dei servizi oppure delle cose materiali, pensiamo per esempio all’istruzione oppure alle pizze, che però hanno una caratteristica particolare».

Quale?

«Ci arriviamo ma partiamo dalle pizze, che sono dei beni privati perché io posso legittimamente impedire a qualcun altro di goderne: compro una margherita, è mia e me la mangio io (nel libro faccio l’esempio dell’indimenticabile cappuccino nel quale Nanny Loy in “Specchio segreto” intingeva la brioche). Quindi questi beni privati innanzitutto sono “escludibili”. E inoltre si consumano, nel senso che se la pizza la mangio io non può mangiarla nessun altro. I beni pubblici invece sono “non escludibili”: io non posso impedire ai miei vicini di casa di mandare i figli nella scuola dove vanno i miei, o di avere accesso alle mie stesse cure mediche. Perciò parliamo di beni non escludibili e non rivali, nel senso che in teoria non si consumano: il fatto che ci sia un utente non impedisce a un altro utente di godere di quel bene o di quel servizio. I beni comuni stanno a metà fra questi due poli, perché da una parte non si può escludere nessuno dal loro godimento, ma dall’altra è vero che si consumano. L’esempio classico sono le risorse naturali: io non posso impedire alle persone di respirare, né di pescare i ricci, per fare un esempio caro a noi cagliaritani. Ma se l’aria si inquina, e quindi la si sfrutta eccessivamente, oppure si pescano troppi ricci, alla fine la risorsa si consuma. E qui si entra, secondo la definizione data già alla fine degli anni Sessanta da un economista ed ecologo come Garrett Hardin, nella “tragedia dei beni comuni”: se li lasciamo alla libera gestione individuale, i singoli avranno tutto l’interesse a sfruttarli nel proprio interesse e contemporaneamente a ignorare il fatto che questo eccessivo sfruttamento, da parte loro come di chiunque altro, può determinarne la distruzione. La dimensione tragica, o comunque dilemmatica, sta qui: se i singoli sono liberi di fare ciò che è meglio per loro, finiranno per fare ciò che è peggio per tutti. Ne consegue che i beni comuni non possono essere lasciati alla logica individuale e anzi vanno attivamente protetti».

In che modo?

«Ci sono varie soluzioni. La prima è statalizzarli, quindi è un’autorità centrale a gestirli d’imperio, in una logica che dovrebbe essere di interesse collettivo. Oppure li possiamo privatizzare: facciamo ricadere tutti i diritti su un singolo, che li gestirà nel proprio miglior interesse e quindi li tutelerà. Il problema è che queste due soluzioni sono estreme e a volte non praticabili, per esempio nel caso dei beni comuni globali, quelli che hanno una dimensione tale da superare i confini statali. Pensiamo alle acque del Nilo, fonte di sostentamento di milioni di persone: attraversano i confini di sette nazioni, come può un singolo Stato regolarne lo sfruttamento? Ovviamente serve un accordo fra più Stati, però la logica dei beni comuni lo rende complicato. Ma la gestione pubblica e quella privata sono le soluzioni tradizionali, non le uniche possibili, e nel libro esploro alcune delle strategie che si possono utilizzare per favorire la cooperazione individuale nella gestione collettiva (quindi non privata né statale) di questi beni».

Questo però presuppone una mentalità più cooperativa da parte di tutti. E già nel 1992 Eibl-Eibesfeldt nel suo “L’uomo a rischio” avvertiva: “Ci troviamo trapiantati con la nostra mentalità da Paleolitico nel groviglio della società moderna”. Non è un po’ troppo tardi per imparare a pensare in modo diverso?

«Qui vedo due punti importanti. Il primo è che effettivamente noi oggi viviamo con un cervello plasmato dai problemi di 150mila anni fa, e infatti facciamo un sacco di sbagli: non riusciamo a capire i numeri né le probabilità e incappiamo in tante altre distorsioni di questo tipo che inficiano i nostri ragionamenti. Ma è vero anche che da un punto di vista sociale abbiamo sviluppato molto presto la capacità di fare le cose insieme: anche quando eravamo cacciatori-raccoglitori nella savana o nelle foreste pluviali dovevamo risolvere problemi collettivi. Da soli non si può cacciare un mammut, insieme invece si può. È proprio la capacità di coordinare l’azione di tanti per risolvere problemi complessi che ci ha dato un vantaggio evolutivo molto forte. E poi è vero che l’evoluzione biologica è molto lenta, ma a un certo punto ha preso il sopravvento quella culturale. Cioè abbiamo “imparato a imparare” dagli altri, apprendendo lezioni sulla base di errori che noi personalmente, e per nostra fortuna, non abbiamo dovuto fare. Per questo l’approccio che descrivo e che faccio mio è quello della Nobel americana Elinor Nostrom, che in sostanza dice: per tutto il secolo scorso noi economisti e scienziati politici abbiamo immaginato che le persone fossero totalmente auto-interessate e abbiamo costruito istituzioni per cercare di costringerle a cooperare, io però ho studiato queste cose per una vita e mi sono resa conto che in realtà non siamo totalmente auto-interessati, anzi abbiamo una capacità di risolvere i problemi di coordinamento e cooperazione molto maggiore di quanto ci dica la teoria. Quindi dovremmo costruire non istituzioni che ci forzino a cooperare ma che ci mettano in condizione di farlo e tirino fuori il meglio da ciascuno di noi. Se ha ragione Nostrom, e penso che sia così, dovremmo provare a mobilitare tutte le risorse che abbiamo e che vanno ben oltre il puro interesse personale per risolvere insieme problemi epocali come il cambiamento climatico, la scarsità d’acqua o le grandi disuguaglianze».

Come si facilita la cooperazione?

«Nel libro indico alcune leve che si posso utilizzare: la nostra capacità di empatia, il nostro desiderio di dare e non solo di ricevere, l’importanza della reputazione, la reciprocità».

Vediamone una che funziona in modo controintuitivo: l’indennizzo per la popolazione chiamata ad accogliere un deposito di scorie nucleari sul proprio territorio. Come è possibile che l’offerta di un incentivo economico faccia calare i consensi, anziché farli crescere?

«È possibile proprio perché le nostre azioni non hanno solo motivazioni estrinseche –io faccio qualcosa per ottenere un certo risultato, vado al lavoro perché voglio lo stipendio, pago le tasse perché temo la sanzione. Ci sono azioni che hanno una valenza altruistica, o comunque pubblica, che noi compiamo perché siamo convinti che siano giuste in sé, quindi per motivazioni intrinseche. Di solito in quel che facciamo ci sono entrambe le motivazioni: io vado al lavoro perché mi aspetto di essere pagato a fine mese ma anche perché sento un dovere nei confronti degli studenti, perché mi piace fare ricerca eccetera. Quando usiamo gli incentivi positivi o quelli negativi, cioè i sussidi o le sanzioni, mandiamo dei segnali che modificano il comportamento. Se ti propongo una somma per accettare il deposito di scorie radioattive, ti sto dicendo due cose: ti propongo un vantaggio economico ma ti faccio anche capire che quello che stai per fare è molto pericoloso. E non credo che lo faresti se non venissi pagato perché non credo nel tuo senso civico, nella tua disponibilità a fare la tua parte per il bene comune. Se il segnale psicologico è più forte di quello economico si può avere un effetto contrario. Lo abbiamo visto con la vaccinazione: rendendola obbligatoria togli riconoscimento a qualcosa che le persone farebbero volontariamente per altruismo. Allo stesso modo le banche del sangue che pagano i donatori raccolgono meno sacche di quelle basate sulle donazioni volontarie».

A proposito di segnali: gli psichiatri da tempo chiedono ai giornalisti di non dare, o almeno di non enfatizzare, le notizie dei suicidi perché fanno scattare l’emulazione. Lei però scrive una cosa sorprendente: il meccanismo è lo stesso anche quando scriviamo di evasione fiscale. Davvero qualcuno truffa il fisco perché gli è venuta l’idea leggendo il giornale?

«Intanto si può parlare di evasione fiscale in vari modi. Si può dire “guardate quanti evasori fiscali ci sono” oppure “guardate quanti cittadini pagano le tasse”. Questi due modi di presentare lo stesso dato – ipotizziamo “il 20% degli italiani evade” oppure “l’80% paga le tasse” – non sono neutrali, anzi hanno effetti profondamente differenti. E questo dipende dal fatto che siamo “cooperatori condizionali”: tendiamo a cooperare se gli altri cooperano e a fare gli opportunisti, i cosiddetti free rider, se gli altri non cooperano. Quindi enfatizzare l’evasione oppure la cooperazione può avere effetti molto differenti dal punto di vista sociale. Un esempio: quando sali sull’autobus e vedi che un passeggero non timbra il biglietto, può voler dire che ha l’abbonamento oppure che non vuole pagare. E in questo secondo caso scoraggia tutti gli altri dal farlo. Certo, su quell’autobus ci sono i duri & puri che pagherebbero il biglietto anche se fossero gli unici al mondo, poi ci sono i duri – ma non puri – che non lo pagherebbero in nessun caso e nel mezzo c’è la gran parte di noi, che si fa influenzare da quello che fanno gli altri. E infatti da qualche tempo il Ctm ha reso obbligatorio strisciare il badge anche per chi ha l’abbonamento, perché in questo modo segnala agli altri che non sta facendo il furbo. Un altro esempio sono i totalizzatori della raccolta fondi per il Telethon, che mostrando la cifra già ottenuta dovrebbero scoraggiare dal donare: lo spettatore può pensare che è stato già dato molto, ci sono già altri che finanziano la ricerca e non c’è bisogno che doni anche lui. E invece funziona, perché quella cifra che cresce manda il segnale di quante altre persone stanno cooperando e quindi ci spinge, visto che siamo cooperatori condizionali, a fare la nostra parte. Viceversa, enfatizzare troppo i comportamenti negativi, l’opportunismo, ha un effetto contagio di cui spesso non teniamo conto».

Soprattutto in un contesto culturale come quello dell’Italia, dove il furbo, l’opportunista, se non proprio un eroe nazionale è di sicuro una maschera tradizionale del nostro carnevale socio-politico.

«Generalizzare è sempre complicato, però che in Italia ci sia una diffusa tolleranza verso certe forme di free-riding è indubbio, e lo vediamo dal fatto che certi messaggi pagano, generano consenso. Altrimenti l’attuale presidente del Consiglio, ma anche un suo predecessore, non avrebbero cercato consenso giustificando gli evasori: pensiamo alla frase sulle tasse come “pizzo di Stato”. Ora, i dati sull’evasione fiscale dei lavoratori autonomi sono inequivocabili, fonti ufficiali come il ministero delle Finanze e l’agenzia delle entrate dicono che gli autonomi dichiarano meno della metà del loro reddito. Negare questo fatto significa strizzare l’occhio a una parte della popolazione che in qualche modo sente di voler essere giustificata. Sono questi i messaggi contraddittori a cui facevo riferimento prima, non puoi dire “l’evasione fiscale non va bene, voglio combatterla” e contemporaneamente dire che l’agenzia delle entrate va a chiedere il pizzo di Stato. A quel punto le persone che messaggio devono seguire? Il primo o il secondo? C’è una responsabilità dei grandi comunicatori – politici, ma anche giornalisti e intellettuali – che spesso usano questi argomenti senza rendersi troppo conto delle conseguenze profonde. Quindi c’è un lavoro culturale da fare, che però è complesso perché le norme sociali che guidano il comportamento di tutti noi seguono equilibri che si consolidano nel tempo, e cambiarle è molto difficile. È come insegnare agli italiani a fare una fila ordinata, o agli inglesi a non fare la carbonara con la panna».

Però gli italiani quando fanno una fila all’estero sono sempre molto disciplinati, e provano compiacimento e addirittura sollievo nel comportarsi ordinatamente.

«Certo, perché siamo appunto cooperatori condizionali, e se ci aspettiamo che anche gli altri tengano un certo comportamento lo adottiamo volentieri, consapevoli che va anche a nostro vantaggio. Guardi, noi abbiamo appena completato uno studio: stiamo ancora analizzando i dati ma quel che già emerge è che chi abita al nord è assolutamente uguale a chi abita al sud: stesso livello di altruismo, di senso civico, di avversione al rischio e così via. Eppure al nord si coopera di più. Perché? Perché lì ci si aspetta che gli altri cooperino di più, e al sud si coopera di meno perché ci si aspetta che gli altri cooperino di meno. Se modificassimo questa aspettativa avremmo gli stessi livelli di cooperazione e questo avrebbe molti effetti, dalla raccolta differenziata che funziona a servizi pubblici più efficienti, da una maggiore affluenza elettorale a una migliore partecipazione della società civile».

Si può dire che a volte chi non rispetta le norme più che un furbo è un pessimista.

«In un certo senso sì. Il punto sono le nostre aspettative sugli altri: possono essere fondate o infondate, ma comunque modificano le nostre scelte».

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