Cronache delle videochiamate su Zoom ai tempi della pandemia: "Venne fuori che c'era qualcosa di tremendamente stressante nelle interfacce telefoniche visuali. (…) Chi chiamava doveva mettere insieme la stessa calorosa e intensa espressione d'ascolto che usava negli incontri di persona. (…) Alle buone vecchie telefonate auricolari si poteva rispondere senza trucco, toupet, protesi chirurgiche eccetera. Persino senza vestiti, se proprio ci andava". E invece "non poteva più esserci nelle chiamate videofoniche quell'informalità tipo rispondi-come-sei, e gli utenti cominciarono a considerare le videotelefonate più o meno come visite a casa".

Non è vero, non sono cronache della pandemia, anche se la raccontano bene. In realtà sono parole di un quarto di secolo fa e le ha scritte David Foster Wallace. Rappresentano uno dei tanti contenuti profetici di Infinite Jest, il romanzo monumento che negli Usa uscì proprio in questi giorni, 25 anni orsono. Nel 1996 la gran parte degli italiani, ma anche degli americani, non aveva ancora un telefono cellulare. Eppure uno scrittore a malapena 34enne aveva già immaginato non solo lo sviluppo tecnologico delle videochiamate, ma soprattutto la nostra reazione psicologica. I motivi per cui quella novità avrebbe incontrato un bambinesco entusiasmo iniziale, e poi una crisi da overdose, dovuta al grave impatto sulla privacy. È questa capacità di leggere nel nostro animo, di conoscerci in particolare nelle debolezze, che oggi rimpiangiamo. Se non si fosse impiccato a una trave nel garage, in un pomeriggio di settembre del 2008, che cosa avrebbe detto adesso David Foster Wallace del mondo sconvolto dal virus? E in questi anni di deliri social, come ci avrebbe descritti nelle nostre dipendenze da like, nell'ossessione dei selfie e di condividere ogni banale esperienza?

Le copertine di Infinite Jest e altri romanzi di DFW (foto Giuseppe Meloni)
Le copertine di Infinite Jest e altri romanzi di DFW (foto Giuseppe Meloni)
Le copertine di Infinite Jest e altri romanzi di DFW (foto Giuseppe Meloni)

Ci sono molti altri passaggi di Infinite Jest che sanno di preveggenza. I teleputer, per dirne una, anticipano di molto le smart tv. Tom Bissell, sul New York Times, ha scritto che "la condivisione di video, il binge-watching su Netflix, la perversa seduzione di registrare su Facebook e Instagram i nostri pensieri più ordinari: in qualche modo Wallace sapeva che tutto ciò stava per accadere". Ma il punto non è trasformare l'autore in una specie di Nostradamus. "La sua visione profetica deriva da un'operazione di autocoscienza che gli ha consentito di capire che cosa non andasse nella porzione di società americana a lui vicina", riflette Fiorenzo Iuliano, docente di Lingua e letterature anglo-americane all'Università di Cagliari, "e quindi dove potesse portare il piano inclinato su cui si collocava quella realtà. L'iperproduzione non solo di merci ma anche di immagini, di contenuti mediatici. La saturazione mediatica della realtà. Questo ha dato alla sua opera un carattere che, a rileggere Infinite Jest a 25 anni dalla sua uscita, sembra quasi profetico".

Il problema, con Infinite Jest, è che ci fa ridere di noi stessi, come tutte le grandi opere ci svela qualcosa che avevamo sotto gli occhi ma non riuscivamo a esprimere, eppure non è facile amarlo. Circa 1.300 pagine senza una vera trama, centinaia di note, un caleidoscopio di storie che possono catturare il lettore, ma anche far venire voglia di mollare tutto o di saltare qualche parte. Non a caso si trovano sul web diversi tentativi di proporre una guida all'approccio al colosso, istruzioni per l'uso di un materiale poco maneggevole. "Forse il suggerimento migliore è accettare la scommessa", riprende Iuliano, "il patto che l'autore propone al lettore: non ti racconto una storia, trova tu la tua strada nel labirinto. Poi, se uno arriva alla fine, tutto acquista un senso. Però dobbiamo lasciarci portare fin lì, anche a costo di perderci". Wallace non vuole solo raccontare: "Tutta la sua scrittura contiene una critica profonda e mai banale alle ossessioni della cultura e della società americana contemporanea. Però la cosa migliore durante la lettura è accantonare il problema del significato, pensarci alla fine, lasciarsi condurre. Se uno parte con l'idea di trovare il romanzo profetico, magari gli passa la voglia di leggerlo".

Ci sta anche questo, in realtà: probabilmente Infinite Jest è ciò che nel terzo millennio ha preso il posto dell'Ulisse di Joyce come volume che vanta il maggior numero di tentativi di lettura abortiti. "È normale provare amore e odio per questo testo che rifiuta ogni linearità", rassicura il professore. "Sentirsi disorientati fa parte del gioco, che si colloca nella tradizione narrativa postmoderna: nella letteratura realista viene raccontata una storia, qui invece il lettore deve interrogarsi sui meccanismi della narrazione".

Ma perché uno dovrebbe sobbarcarsi questa fatica? Non c'è un perché, si può averne voglia oppure no, e nessuno si senta in colpa. O forse ce ne sono tanti. Perché Infinite Jest scatta una fotografia della nostra disperazione, e nel mostrarcela ci strappa un sorriso. Perché è come un grande manuale di istruzioni, anche se di solito totalmente inutili, però esilaranti: come svitare il tappo di una fiaschetta, come imparare a seguire il servizio a rete (tennis), come sfuggire a un branco di criceti selvaggi.

Oppure perché, come ogni caricatura, esagera ma non mente. Forse non vedremo mai la numerazione degli anni sostituita dai nomi degli sponsor (anno della Saponetta Dove, anno del Pannolone per adulti Depend…), ma non ci è rimasto molto altro da vendere. E la caccia al Grande Intrattenimento, così perfetto da annullare chi lo guarda, è una metafora fin troppo chiara dei nostri giorni. Per chi affronta oggi Infinite Jest, o comunque l'ha fatto dopo la morte di DFW, il rischio è leggerlo per cercare le ragioni del suo gesto. L'annientamento di sé è molto presente nel romanzo ("le ore prima di un suicidio sono fatte di enorme presunzione ed egocentrismo"), ma quella risposta non c'è. E comunque non si può ridurre la letteratura di Wallace alla sua depressione, che l'ha accompagnato per gran parte della vita. È vero però che persino nelle pagine più divertenti del volume (o di altre opere, come le Brevi interviste con uomini schifosi, un gioiellino) si sente il "rumore bianco" dell'angoscia collettiva, quella di un mondo in cui ciascuno fatica a dare un senso alla propria esistenza. "Nella visione distopica di Infinite Jest le peggiori catastrofi sono effettivamente accadute, a partire da quella ambientale", spiega ancora Fiorenzo Iuliano: "C'è l'idea di una società che non può fare a meno di produrre, in cui il meccanismo della produzione e del consumo è impazzito. Il tutto ambientato a Boston, città simbolo dell'indipendenza degli Stati Uniti, nel New England, nucleo originario della nazione: finisce sotto accusa la stessa identità americana, tra il nobile passato e un futuro in cui si sono avverate le previsioni più fosche, gli ideali di ribellione e indipendenza sono stati stravolti, sostituiti dall'ossessione per il consumo". C'entra anche la condizione personale di DFW: "Un maschio bianco della buona borghesia, con un'eccellente istruzione, che cresce in un periodo in cui si dà giustamente spazio alle voci minoritarie, di dissenso. Non essendo "parte lesa" dalla storia, non può farsi portavoce di quelle istanze. Può solo fare un esercizio di autocoscienza, in nome di quella parte dell'America che mantiene il potere e non ha fatto fino in fondo i conti con se stessa. E lo fa bene, anche se con esiti alterni".

Rispetto alla letteratura postmoderna a cui viene accostato, David Foster Wallace aggiunge - nota Iuliano - "il senso di una forte responsabilità etica. In Thomas Pynchon e altri c'è l'effetto della guerra fredda, l'incubo nucleare". L'autore di Infinite Jest vive invece nel mondo post-guerra fredda, in cui la catastrofe si è già verificata ma è di altro tipo: il mercatismo è rimasto senza avversari, l'uomo a una dimensione (che è ormai solo quella consumistica) non è più padrone di sé. "Di fronte a questo, Wallace esprime la possibilità di recuperare un senso, se non di solidarietà, almeno di empatia tra gli esseri umani. È qualcosa che si percepisce nella sua opera", conclude Iuliano, "al di là della profonda, agghiacciante consapevolezza del presente".
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