Presidente Giulini, questa settimana lei festeggia sia i suoi 47 anni di età che – oggi – i suoi 10 anni da presidente del Cagliari. 

(Ride) «Vero. E non ho dubbi: quel secondo compleanno mi ha fatto invecchiare di più».

Vuol far credere che dirigere una multinazionale come Fluorsid sia meno stressante che guidare una squadra di Serie A?

«Scherza? Nulla è più pericoloso del calcio: in questo decennio ho messo spesso a rischio le coronarie. Nel 2024 abbiamo un record di gol e punti guadagnati o persi negli ultimi minuti».

E quindi?

(Sospira) «Avrei dovuto seguire le partite con cardiologo e defibrillatore in tribuna, per evitare rischi».

Dodici punti tra guadagnati e persi dopo l’ottantesimo.

«La Serie A è più difficile. E io, dieci anni fa, ero un ragazzo entrato in società con l’ambizione, l’entusiasmo e persino l’incoscienza di chi pensava: “Possiamo vincere tutto e subito”. Oggi sono certo del contrario».

Spieghi meglio.

«Dieci anni fa facevo questo lavoro quasi solo per passione. Adesso so che se nel prossimo campionato abbiamo delle chance in più di vincere è perché questo lavoro lo svolgo come un mestiere».

…Non è chiaro. Si diverte di meno?

«Ho imparato a mie spese almeno sei grandi lezioni sul calcio. Le ultime due da Ranieri e Gigi Riva».

Cominciamo da Riva?

«È una lezione sul fattore umano. Era il 2020, poco prima della pandemia, l’unica volta che ho litigato con Gigi».

Cos’era successo?

«Insieme a Nicola, suo figlio, eravamo riusciti a convincerlo a fare il presidente onorario. Io ero al settimo cielo. La squadra in un momento magico. Anche lui pareva felice. Avevamo già fatto un comunicato. Arrivavano a Gigi messaggi di congratulazioni da tutto il mondo. All’improvviso mi chiama: “Dobbiamo parlare subito, vieni a casa?”. Certo, Gigi. Ero nell’altro capo dell’Isola, corro».

Contento?

«L’esatto contrario. Mi apre, scuro in viso: “Tommaso! Ho cambiato idea”. Chiedo, incredulo: “Come?”. E lui: “Da quando abbiamo deciso non dormo più la notte. Troppo stress. Rinuncio”. Io gli rispondo, e faccio male: “Ma i tifosi ci resterebbero male! La notizia è già in tutti i Tg”. Si arrabbia: “Ho detto dodici no ad Agnelli! Pensi che non possa dimettermi ora?”. Sembra un film… Non dimenticherò mai la scena. Gigi inizia a ricordarci tutti i no della sua vita, dal 1968 al Mondiale del 2006. Rimaniamo incantanti, uno spettacolo. Ma capisco allora che quel racconto era il vero cardine di tutta la sua storia. Dietro il campione, una muraglia di grandi rifiuti, dal collegio al calcio».

E poi?

«Emergenza. Chiamiamo per sms due dei suoi migliori amici, Tomasini e Camba, del gruppo degli ex rossoblù. E ovviamente Nicola. Gigi sta ripetendo: “No, no, no!”. Suonano alla porta. Lui apre. Sono Thomas e Sandro, che fanno finta di non sapere, lo abbracciano, e in coro gli dicono: “Possiamo già chiamarti presidente?”. E lui? Si siede, crolla in poltrona, affranto: “Vi ci mettete anche voi! Ma è un incubo!”. E a questo punto capiamo la sua passione per il calcio, la sua dedizione per la squadra. “Mettere in gioco il mio nome, a 80 anni, per me significa rischiare tutto! Era un no irrevocabile. Ma a questo punto Tomasini gli si siede davanti, faccia a faccia, e gli fa: “Ma Gigi! Tu stai facendo un regalo simbolico alla tua città! È come nell'anno dello scudetto. Non rappresenti solo te stesso! Tu sei di nuovo tutti noi!”. Geniale».

E come finisce?

«Sandro e Thomas lo abbracciano. Gigi ha le lacrime agli occhi. Si lascia ricadere nella poltrona, si accende una sigaretta, ci soffia una nuvola di fumo in faccia e mi dice: “Tommaso…. Me ne pentirò, lo so già. Ma Beppe ha ragione, accetto”».

Per fortuna non se ne è pentito, è stato festeggiato.

«A me è rimasta addosso quella lezione di attaccamento, di devozione. Di severità con sé stessi, nel misurarsi. E quando lui ci ha lasciato ho capito meglio: la troppa leggerezza a volte è un handicap. Ho preso quell'intransigenza, l’irriducibile e spigoloso rigore di Gigi come un regalo per la vita. Avrei voluto filmare per poterlo mostrare ai ragazzi di oggi: “Guardate, questo era Riva”».

***

Siamo a Milano. Il telefonino di Tommaso Giulini squilla di continuo, trilla di sms. Offerte, contratti, mercato. Sbircio nomi e cifre. Chiedo: «Non risponde? Ho letto che è prendere o lasciare, affare del secolo». Primo: «Non sbirci». Secondo. «Ecco un’altra lezione. Il tempo di una trattativa. Meglio perdere un ottimo affare, che fare un errore imperdonabile».

Facciamo un esempio.

«Il giorno in cui mi vendette il Cagliari, Cellino mi disse: “Non correre sullo Stadio. Guarda me, ci sono finito in carcere!”».

Si dice che allora non vi amaste.

«Mi stava dando un consiglio prezioso. Tuttavia: abbiamo costruito la Sardegna Arena in poco più di due mesi, un record. Ho fiducia che si possa compiere pure l’impresa del nuovo Sant’Elia».

Perché è così difficile?

«Non dipende solo da noi, ma da tre diverse autorità che in Italia, fra l’altro, si rinnovano in media una all’anno».

Le hanno fatto male i fischi dopo la salvezza?
«La verità? Molto. Però ora ho la freddezza necessaria per prendermeli tutti. È il mio mestiere: portare la croce. Io dopo la salvezza non ho dormito tre giorni per la gioia».

Cosa vogliono i più esigenti, da lei, dopo otto salvezze?

«Molti tifosi sognano un presidente Paperone. Il bello è che quando penso da tifoso lo voglio pure io, un Paperone Giulini. Adesso so che non basta».

In questi anni avete investito milioni e milioni.

«Il calcio italiano sta diventando un oggetto di speculazione: fondi americani, presidenze straniere. È bello, la sfida è più difficile, ma ecco un’altra lezione: nel calcio esiste la sfortuna, e può essere potentissima. Nell’anno in cui dopo dieci giornate eravamo terzi, stavamo vincendo fuori casa a Lecce, tutto andava come doveva e …».

Piovve.

«Incredibile. Partita sospesa, si ripete il giorno dopo. Nel finale, il crollo: rissa tra Lapadula e Olsen, squalifica di quattro giornate al nostro portiere e… pareggio».

La domenica dopo sconfitti in casa dalla Lazio, nel recupero infinito.

«Era una squadra fortissima: Rog, Nainggolan, Joao Pedro, Simeone, Nandez, solo per citarne qualcuno. Un investimento enorme. So che, se le rigiocassimo dieci volte, vinceremmo sempre. Ma quelle nuvole nere di Lecce ci rubarono l’attimo, la scintilla: in Serie A serve anche un po’ di culo».

Sfortuna tanta.

«Penso a Rog. Due gambe e tre crociati. Pavoletti due crociati».

Sono entrambi ancora del Cagliari.

«Perché non mollano mai, e io non lo dimentico: quando Marko tornerà dal prestito alla Dinamo Zagabria, a gennaio, il mio sogno più grande è che diventi una marcia in più per tutta la squadra».

Altra lezione.

«Cercare quello che a prima vista non tutti vedono. Abbiamo creduto in Vicario quando molti dicevano: è filiforme, non ha il fisico di un Donnarumma».

Invece?

«Lo vedevo nell’area, muoversi come un direttore d’orchestra. Prima aveva davanti un Cragno in Nazionale. E poi, quando poteva diventare titolare, noi siamo andati in B, mentre lui aveva diritto alla A. È andato in prestito. Abbiamo visto lungo: ora è numero uno al Tottenham. Ma da noi, per questi incastri, non lo è mai stato: pazzesco! Tu puoi vedere prima… Ma poi nel calcio deve anche accadere nel momento giusto».

È vero che sua moglie vuole trasferirsi nell’Isola?

«Mi dice sempre: “Tommaso, alla fine ti licenzi da tutto e ci trasferiamo a Cala Caterina”, dove abbiamo una casa. Ci abbiamo passato la pandemia. Io avevo i tamponi di Fluorsid, e tanti amici del paese venivano a farli da noi».

Rimpianti per Barella?

«Nicolò era inseguito dall’Atletico Madrid. Simeone lo chiamava un giorno sì e uno no. Lui ha rinnovato con noi, e così abbiamo potuto reinvestire tutta la plusvalenza della cessione all’Inter».

Cosa aveva più di tutti?

«Un’età mentale anni superiore a quella biologica. Discuteva con me i suoi rinnovi, dicendomi i suoi obiettivi e quando li avrebbe raggiunti. A 18 anni!»

Li ha presi tutti? (

Ride) «Mancano solo la Champions e un bel Mondiale con la Nazionale».

Con Ranieri avete attraversato inferno e Paradiso.

«Senza mai mollare, né lui né io. È venuto a fare una lectio magistralis ai dirigenti Fluorsid di tutto il mondo. E si era dato come tema: “La capacità del leader di riconoscere l’errore”. Capite l’uomo?»

La sua dote più grande, secondo lei?

«Nessuno sa gestire le anime come lui. Ha inculcato nel cranio ai giocatori che si può vincere fino al 98’. Lo dicono tutti, senza riuscirci, lui lo ha fatto. E ci siamo salvati proprio in quei minuti».

E la sua lezione più grande?

«Ha fatto piangere mia moglie Ilaria, a Bari, quando è andato a dire ai tifosi: “Non fischiate gli sconfitti!”».

Perché Ilaria era così commossa?

«Grazie a lei siamo l’unica squadra d’Italia ad avere un settore di soli bambini. E a Bari in lacrime mi dice: “Con un gesto ha spiegato a tutti quelli che noi fatichiamo ad insegnare in anni”. Potenza del calcio».

La lezione del prossimo mister, che tutti già conoscono ma non si può ufficializzare ancora per vincoli contrattuali?

«Nicola ha raggiunto almeno tre salvezze miracolose (Crotone, Salerno ed Empoli). Siamo pari su quel piano. Come sarebbe bello fare il salto insieme. Chi arriva tardi vince meglio, c’è lo insegnano Gasperini e Sarri».

Due immagini di quest’anno da portarsi dietro per la vita.

«Abbiamo preso Kingston su un campetto di polvere della Serie B, in Zambia, vedendolo fare tre cose pazzesche in campo. Un gesto d’impulso».

Ma questo non contraddice la lezione sul presidente di mestiere che non si lascia guidare dalle emozioni?

«Vero. Però il mio lavoro è costruire una squadra in cui lo spazio per la passione c’è! Abbiamo visto i suoi occhi brillare di speranza. Quando ha segnato il suo primo gol in Serie A ho provato un’emozione fortissima».

E l’altra cartolina?

«Siamo dentro Bonaria, per l’addio a Gigi. Il discorso di Nicola ci arriva come una scossa. Ma alla cerimonia manca qualcosa. Troppo fredda. Troppe autorità».

E poi?

«Bisogna portare fuori il feretro. Corro da Reginato e da Tomasini e gli dico: “Vorrei che prendeste voi la bara!”. Loro si precipitano. Reginato è scosso dai singhiozzi, con il legno in mano. Accorrono Buffon e Cannavaro. C’è il meglio di tre generazioni di calcio italiano, dallo scudetto del 1970 alla vittoria del Mondiale, sotto la bara di Gigi».

E si aprono le porte.

«È il crepuscolo, il sole sta scendendo sul mare. C’è chi accende fumogeni. La bara balla sulle teste, ondeggia mentre tutti vogliono toccarla. I tifosi gridano “Gigi! Gigi!”».

Un quadro.

«Il funerale è diventato il più bel funerale del mondo in quei cinque minuti di magia. Poi il disco del sole si è infilato nella linea del mare. E io ho pensato che qualunque cosa accada faccio il mestiere più bello possibile. Perché non c’è nient’altro, nella vita, che ci regali emozioni come queste». 

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