Cosa ti ha dato il calcio? E cosa ti ha tolto?

«Il calcio a me ha dato un po' tutto. E non mi ha tolto niente. A parte la sofferenza per gli infortuni».

Gigi Riva, il campione è lì, davanti a te, nel suo storico ufficio a due passi da via Dante. Alle pareti i ricordi di una carriera straordinaria.

I gol con la Nazionale, 35, come mai nessuno. Lo scudetto di una Terra, la Sardegna. L'ultima volta al Sant'Elia per il saluto a Nenè.

«Sì, è così».

Ma da quanto tempo non segui una partita del Cagliari al Sant'Elia?

«Da diversi anni, tanti».

Perché?

«Perché mi prende un po' di agitazione, mi dà stress. Ne ho già tanto per conto mio,

Allora segui le partite in tv?

«Nemmeno. Guardo la sintesi, i servizi che raccontano com'è andata».

Parliamo del Cagliari di Tommaso Giulini.

«Lo vedo bene. È una squadra che ha un po' di alti e bassi. In trasferta, in particolare, si disunisce un po'. Ma farà bene».

E il nuovo stadio?

«Ecco, qui non sono d'accordo con Giulini. Trovo sbagliato puntare su 20 mila posti. Un piccolo stadio, fatto per i cagliaritani, mentre il Cagliari è di tutta la Sardegna. È una squadra che credo possa essere ancora seguita da decine di migliaia di persone, come quando giocavamo noi».

Con Cellino non c'è stato grande feeling. O ricordo male?

«No, magari qualche piccola polemica sulle questioni calcistiche… Ma non c'è stato niente di particolare».

Capitan Dessena torna dopo 11 mesi e segna due gol. Cosa hai provato?

«Molto, molto contento per il ragazzo. Veniva da un brutto infortunio. Rientrare e fare due gol è una gran bella emozione. Ma Daniele deve essere contento soprattutto perché è riuscito a tornare com'era prima».

Gigi, tu oggi hai rapporti con la squadra, con i singoli calciatori?

«No». Per scelta? «Sì, per scelta. Ho girato tanto, troppo. Arriva un momento in cui devi dire basta. E non ho più tanta voglia di salire su un aereo».

Torniamo indietro. Cosa ti portò a Cagliari, a 18 anni.

«Intanto mi portò, appunto, un aereo. Milano, poi Genova, quindi Alghero e finalmente Cagliari. Venne a prendermi Miguel Longo, che era un giocatore rossoblù. Percorremmo una strada sterrata tra l'aeroporto e il centro. Solo in via Roma avevo avuto l'impressione di essere finalmente arrivato in una città».

Non fu un bell'impatto.

«Già, lo ammetto. Mi ero spaventato! Ma ero un ragazzino, in fondo. Poi pian pianino ho fatto le visite mediche, mi sono inserito nella squadra e nella città. Anche se un altro colpo mi era venuto quando vidi l'Amsicora in terra battuta. Mi sembrava quasi di essere tornato a Leggiuno, il mio paese, quando giocavamo per strada. Poi, per fortuna, abbiam vinto il campionato e siamo andati in serie A».

E quel Cagliari vinse anche lo scudetto, 46 anni fa. Quale fu il segreto?

«Nessun segreto, eravamo forti, ti devo dire. Ma proprio forti. L'anno prima arrivammo secondi. L'anno dopo eravamo in testa, cinque punti di vantaggio sull'Inter. L'ultima partita che ho fatto prima di farmi male a Vienna con la Nazionale fu proprio con l'Inter a Milano. Vincemmo tre a uno. Poi purtroppo quell'infortunio contro l'Austria. Frattura del perone, tutta la caviglia sfasciata».

Cosa spinge a ripartire dopo una mazzata come quella?

«La passione. E sono ripartito anche bene. Ma fu un infortunio brutto, molto brutto».

Gigi, hai appena acceso una sigaretta. Quante ne fumi ancora?

«Tante, troppe».

Cosa rimane, oggi, di quel gruppo? Vi sentite? Vi vedete?

«Restano i ricordi, intanto. Incancellabili. Comunque ci sentiamo, ogni tanto ci vediamo. Albertosi è stato qui di recente, altri abitano a Cagliari, capita di incontrarci».

Gigi Riva e Manlio Scopigno.

«Ha saputo prendermi. Ricordo un discorso che mi fece: io sono il tuo allenatore, certo, ma sono anche un tuo amico. Se hai problemi, era il senso, e vuoi confidarti con qualcuno, se vuoi parlarne, io ci sono».

Andrea Arrica.

«È stato un po' il mio scopritore. Anzi, a dire la verità quando sono arrivato, nessuno m'aveva preso… Tutti si rifiutavano di prendersi la responsabilità di avermi portato a Cagliari. A ripensarci, non avevano tutti i torti. Pesavo 67 chili, ero magro, secco, giovane. Anzi, un bambino».

Campione d’Italia e d’Europa ma “solo” vicecampione del mondo, dopo quell’Italia-Germania che è nella storia del calcio.

«C’è rammarico, sì, perché il Brasile di Pelè, nonostante il 4-1 per loro, era alla nostra portata. Però poi la Coppa del Mondo l’ho accarezzata da team manager nel 2006, quando vincemmo il mondiale in Germania».

La tua esperienza da dirigente della Nazionale.

«Bella, anche perché mi ero conquistato l’amicizia, la fiducia e la stima di tanti ragazzi. Ci sentiamo ancora, in particolare con Buffon».

Perché hai chiuso con gli azzurri?

Scelta mia, anche questa. Mi sono detto che a un certo punto della vita era giusto non occuparsi più di calcio».

Nell’immaginario collettivo il tuo gol più bello è quello di Vicenza. Per te?

«L’hai detto tu. Quello».

Un ricordo felice.

«Penso alla promozione in A, anche perché finalmente han fatto il campo in erba, all’Amsicora. E quando cadevi non ti tirava via mezzo etto di carne dalle gambe».

Il momento più triste.

«L’infortunio di Vienna. Alla fine del 1970».

In tanti, in Italia e nel mondo, tifano Cagliari grazie a Gigi Riva. Che effetto fa?

«Il Cagliari, intanto, è un pezzo di casa per i sardi nel mondo. Ti fa sentire più vicino. Quanto a noi, eravamo la squadra simpatia. È bello sapere che, ancora oggi, c’è chi ama i colori rossoblù pensando a quel gruppo».

Tanti ragazzi ti fermano ancora per strada per un selfie. Nel ’70 erano bambini i loro genitori.

«Con i telefonini, ormai, tutti possono fare una foto. Ma è un piacere».

E la scuola calcio Gigi Riva?

«Io me ne occupo sempre meno. C’è mio figlio Nicola a dirigerla».

Giacomo e il suo ristorante alla Marina sono tappa fissa nella tua serata, da tanti anni. Qual è il tuo piatto preferito?

«Lì sei obbligato a mangiare pesce».

E non va bene?

«Certo, benissimo. Un piatto di pasta e poi un’orata, una spigola o quello che offre il pescato del giorno».

Pregi e difetti di Cagliari.

«Una bella città dove vivere. Sì, il Comune sta facendo un po’ di lavori, ma il parcheggio è un problema. E poi è pieno di donne che guidano...».

Ti stai giocando molte ammiratrici...

«Era una battuta».

Quanto conosci la Sardegna?

<+tondo 2013>«Meno di quanto vorrei, però sì, la conosco abbastanza. La costa, l’interno. Con tanta gente perbene».

Si dice che i sardi siano un po’ chiusi. Come Riva.

«Sì, può essere che io un pochino lo sia. Però quando vado in giro mi fa piacere il contatto umano. E i cagliaritani, i miei concittadini, lo sanno».

Mai tentato dalla politica? Le offerte sono state tante.

«Sì, tante. E ti dirò che una volta, quando c’era Craxi al Governo, ci fu un marcamento stretto per tentare di convincermi. Ma non se ne fece nulla».

Non hai mai voluto parlare della tua famiglia, dei tuoi genitori. Io ci provo.

«Non ho mai parlato, ma con me stesso ho parlato tanto. E ho pensato molto a mio padre, a mia madre. Quando sono arrivato in Sardegna mia madre era morta da un paio d’anni. Mio papà invece era morto quando ero ragazzino».

Quanto è mancata la figura del padre nella tua vita, Gigi?

<+tondo 2013>«Molto, molto. Io ancora non giocavo a calcio. Mio padre era un grande appassionato di sport, amava il ciclismo».

E mamma che diceva? Magari “non andare a giocare a pallone che ti rovini le ginocchia!”.

«No, che ti rovini le scarpe e te ne devo comprare un altro paio! Pensa che io per andare a messa, e la chiesa era un po’ lontana, pigliavo un barattolo e lo lasciavo fuori. Finita la messa, tornavo a casa usando quel barattolo come se fosse un pallone. Povere scarpe...».

Che ricordo hai di tua sorella Fausta?

«Fausta è stata una ragazza sfortunata. Un delinquente la mise sotto in moto, lei era in bicicletta. È rimasta paralizzata per tre o quattro anni. Un medico, poi, si è preso cura di lei. Aveva un ematoma in testa. Sciolto l’ematoma, ha ricominciato a camminare. Ricordo una domenica. Andammo a trovarla con la mia mamma, ci venne incontro con le sue gambe. Non ti dico la faccia di mia madre, te la lascio immaginare. Fausta mi seguì quando andai a Legnano, in serie C. Poi si è fidanzata e a Cagliari sono arrivato da solo. Gioie e delusioni da solo, a letto. Anche con qualche lacrima».

E qui hai messo su famiglia.

«Sì, ho avuto una famiglia, due figli, Nicola e Mauro, tutti e due grandi, adesso, che lavorano».

I ragazzi hanno anche giocato a calcio. Quanto è stato faticoso, per loro, il nome del padre?

«Eh, si mascheravano. Mauro voleva che lo chiamassero Mauro e basta, non Riva. Però orgogliosi, ne sono certo».

Se potessi riprogrammare la tua vita, rifaresti tutto?

«Non cambierei tanto. Ecco, non andrei a Vienna...».

C’è una domanda che avresti voluto che ti rivolgessi?

«Non so... Ecco, cosa ho pensato quando ho visto il terreno dell’Amsicora. Ghiaia. Ero pronto ad andare via, non avevo fatto neanche le visite mediche».

Oggi sono 72, Gigi, 72 anni. Ho il privilegio di farti gli auguri a nome di milioni di tuoi tifosi sparsi nel mondo.

«Grazie, mi fa tanto piacere. Soprattutto se ti riconoscono perché vali come persona più che come calciatore, più per quel che sei e non per quel gol che hai fatto. Grazie, grazie a tutti».
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