Il leone è in gabbia. Non molla, magari ha poca voglia di graffiare, di azzannare avversari e palloni. Ma Gigi c'è, è lì, il cuore è lo stesso, l'anima è sempre rossoblù e tutto il resto. Da cinquant'anni quest'Isola lo ha nominato patrono laico, venerandolo come un Santo. Pesante responsabilità, per Riva, icona del campione, anima - e non solo - di quello Scudetto che stiamo celebrando in queste pagine. Con L'Unione Sarda e L'Informatore che hanno contribuito a scrivere una parte della leggenda.

Riva, lei ha detto tutto di cinquant'anni fa. Ci raccontò perfino di quel sogno che fa, ogni tanto, legato allo Scudetto. Ma cosa le è rimasto dentro, di quei giorni?

«Penso ancora che il Cagliari e la Sardegna, mezzo secolo fa, hanno messo la testa fuori dall'Isola, si sono fatti apprezzare e mi sembra che ancora siamo ricordati. Ricordo che eravamo fortissimi ma pochi scommettevano su di noi. Fu una grande soddisfazione, oltre il calcio. Si può dire indimenticabile?».

Come è cambiata la vita in questo mezzo secolo?

Silenzio. «È cambiato tutto, è un altro calcio».

Torniamo in campo. Non cominciò una dinastia Cagliari, dopo il 1970. Eppure la squadra era solida e non venne smembrata, anzi.

«Dopo lo Scudetto, potevamo pretendere ancora, nonostante quella soddisfazione enorme. Ma mi ruppi una gamba e la squadra non riuscì a difendere quel campionato vinto con merito. I miei compagni andarono giù di morale, uscimmo dalla Coppa e non fu più la stessa cosa. Mi resta dentro comunque la soddisfazione che abbiamo saputo dare ai sardi».

Il calcio italiano le riconosce ancora il ruolo di leader, di padre spirituale. Lo dicono i giovani e i meno giovani della Serie A. Si ritrova in questo ruolo?

«Sì ed è una grande soddisfazione. E spiego perché. Arrivai a Cagliari con mille dubbi dentro, andai via dal Legnano dopo aver perso i genitori, da ragazzo io ho sofferto tanto e cambiare vita fu molto difficile. Per atterrare a Cagliari facemmo tre scali... Credo che i calciatori di oggi e di ieri abbiano capito il mio sacrificio e la mia scelta, anche quella di legarmi a una maglia per sempre».

Magari la parola nostalgia fa parte anche del suo privato. Di quelle stagioni cosa le piace ricordare?

«Avevo bisogno di amici. Venendo via da Leggiuno mi pareva che la vita continuasse a penalizzarmi. Invece a Cagliari ho trovato subito qualcuno che mi capiva, a cui dedicare i gol e passare il mio poco tempo libero. Segnavo per la squadra, per me ma anche per gli amici. Anche se mi tenevo tutto dentro. Mi sono ambientato bene grazie alla gente sarda».

Com'è la sua "quarantena" a casa? Non è una grande novità, per Riva, uscire poco...

«Sì, ma questa è una cosa seria, se ci ragioni un attimo è una giusta privazione, i motivi li sappiamo e credo sia corretto rispettarli».

Al tifoso che ama Riva come il primo giorno, cosa vuole dire?

«State vicini al Cagliari, ha bisogno, in squadra ci sono dei giocatori che arrivano dall'estero, da Paesi lontani. Il Cagliari resta e sarà sempre la squadra della Sardegna».

Presidente, le manca la partita, l'emozione di vivere i novanta minuti da tifoso?

«Sì, mi manca, ma sono sereno, oggi pensiamo a superare questo momento difficile. Il futuro sarà migliore».

Enrico Pilia

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