Adam Filippi al Basketball City Camp: «Qui si lavora come professionisti»
L'organizzatore Antonello Manca ha scelto di affidare la prima delle tre settimane di lavoro al tecnico di fama internazionalePer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Si fatica, si suda e si migliora. Sempre col sorriso stampato sulle labbra. È scattato sotto i migliori auspici il Basketball City Camp, che da lunedì scorso tiene banco negli impianti dell'Ex Comparto 8 di Monserrato. E per partire col botto, l'organizzatore Antonello Manca ha scelto di affidare la prima delle tre settimane di lavoro a un tecnico di fama internazionale: Adam Filippi, scout e player development coach che in carriera vanta ben 3 titoli Nba conquistati con i mitici Los Angeles Lakers.
«Non ero mai stato in Sardegna per motivi legati alla pallacanestro», racconta Filippi, subito dopo una pausa ristoratrice al Poetto, «ho girato quasi 50 Paesi di tutto il mondo, dalla Cina al Brasile passando per la Russia e gli Usa, eppure un entusiasmo e un calore così non li avevo mai riscontrato da nessuna parte. È stato amore a prima vista. Addirittura il sindaco si è scomodato per venire a salutarmi».
Al Basketball City Camp si lavora sodo: «La mattina formiamo dei piccoli gruppi per i ragazzi con una formazione più avanzata», spiega, «il lavoro è identico a quello dei professionisti. Stessi esercizi, stessa intensità richiesta ai giocatori Nba. Sono rimasto impressionato dalla velocità di apprendimento di molti iscritti». Ed è proprio questa la soddisfazione più grande: «La pallacanestro è uno strumento straordinario per la crescita individuale», sottolinea, «cerco di inculcare la cultura dell’auto esigenza. Accettare la sfida con sé stessi è una spinta fenomenale verso il miglioramento. Non c’è cosa peggiore che accettare la mediocrità».
Ma Adam Filippi è soprattutto il “guru” della meccanica di tiro: «Si tratta di un fondamentale composto da numerosi elementi», evidenzia, «bisogna curare la ricezione, il palleggio, la coordinazione occhio-mano e il senso del ritmo. Non è soltanto mettere la palla dentro il canestro. Durante il camp si cerca di far capire ai ragazzi che è necessario per procedere per piccoli step». Proprio come era solito fare l’allievo per eccellenza di Filippi: Kobe Bryant. «Era uno dei giocatori più forti al mondo, eppure, durante i suoi allenamenti, non cercava mai delle scorciatoie», ricorda, «partiva sempre dagli esercizi più semplici e basilari per poi progredire gradualmente. La sua routine era quasi religiosa».
In tanti anni di carriera, Filippi ha aiutato un’infinità di giocatori a sprigionare il massimo del loro potenziale. L’ultimo, in ordine cronologico, è Deni Avdija, ala israeliana passata di recente dagli Washington Wizards ai Portland Trail Blazers. Due anni fa aveva prodotto 9,2 punti di media col 29% dall’arco. Nell’ultima stagione è passato a oltre 14 personali col 37,4% dalla lunga distanza, risultando 6° nella classifica dei giocatori più migliorati della lega: «Uno dei lavori individuali di cui vado più orgoglioso», ammette, «ma non sempre le soddisfazioni arrivano dai professionisti. Faccio un esempio: lo scorso anno, in un camp a Roma, mi sono imbattuto in un ragazzo che non pareva tanto portato per la pallacanestro. Aveva difficoltà in tutti i fondamentali, e quando tirava da 3 non si avvicinava mai al ferro. In una settimana di allenamenti ha cambiato radicalmente il suo atteggiamento, e l’ultimo giorno è arrivato a fare 5/10 dall’arco. Un lavoro del genere può portare benefici anche sull’autostima fuori dal campo».
In tanti anni di carriera, la prima ”guest star” del Basketball City Camp, ha avuto la possibilità di stare al fianco dei più grandi: «Noi allenatori e scout non siamo gente da copertina», dice, ma ho comunque avuto tre grandi privilegi. Il primo è stato vedere Kobe Bryant allenarsi. Senza riflettori, senza pubblico, senza stampa. Si applicava con una devozione e una voglia mai visti prima e dopo. Il secondo privilegio è stato conoscere una leggenda del calibro di Jerry West (recentemente scomparso, ndr). Era il gm dei Lakers, ma soprattutto a persona che ha influenzato l’Nba più di chiunque altro. E poi», chiude, «c’è anche coach Phil Jackson. Aveva un modo unico di trattare i giocatori, e sapeva sempre trovare la chiave di lettura più giusta».