Aveva 61 anni, era nato e risiedeva a Nashville, Tennessee, si chiamava Kelley Looney e difficilmente la notizia della sua morte otterrà grande visibilità sui mass media in Italia. Era conosciuto, ma non troppo, in quanto bassista di Steve Earle, 64 anni, uno dei più grandi cantautori viventi, re senza corona di quella terra di nessuno che sta tra il country e il rockabilly, il bluegrass e il rock. Non esattamente la roba che va forte in classifica, nel nuovo millennio. Nemmeno in America.

Parliamo di musicisti che sì, girano il mondo e hanno una loro base di affezionati ascoltatori, ma niente che somigli al mito della rockstar. Steve Earle, per dire, ha venduto parecchi dischi (all’inizio della carriera) e ha vinto ben tre Grammy awards, ma un paio d’anni fa, durante un’intervista telefonica, si scusò per la voce affannata: stava estraendo la biancheria dalla lavatrice per stenderla, spiegò con naturalezza. Kelley Looney non stava bene, ultimamente. Un fan, su una pagina Facebook dedicata a una certa scuola cantautorale a stelle e strisce, quella “maledetta” e “fuorilegge” che va da Townes Van Zandt a Guy Clark a (appunto) Steve Earle, ha raccontato di essersi ritrovato in ascensore con il bassista qualche settimana fa: «Respirava a fatica». E quella sera era regolarmente salito sul palco.

Kenney Looney (foto Marco Noce)
Kenney Looney (foto Marco Noce)
Kenney Looney (foto Marco Noce)

Poche note ma possenti - Kelley Looney non era un virtuoso. Però era il possente pilastro dei The Dukes, la band che accompagna Steve Earle: poche note, dense e chiare, solide. Il bassista, in una rock band, equivale al centrocampo in una squadra di calcio: fa da collante fra i reparti. Se però volessimo paragonare il suono a un edificio, la parte del basso equivarrebbe all’insieme dei pilastri: struttura portante, a partire dalla quale tirare su pareti e gettare soffitti. Steve Earle, qualche anno fa, ha dichiarato alla radio country SiriusXM Outlaw che se non avesse più avuto Kelley Looney al basso avrebbe smesso di suonare in una band: meglio, a quel punto, esibirsi in solitaria, voce, chitarra e armonica a bocca. Una lunga fedeltà

Kelley suonava stabilmente nei The Dukes dal 1996: in studio e sui palchi di mezzo mondo. La collaborazione con Steve Earle, però, andava avanti da prima: fin dall’album “Copperhead Road”, del 1988, probabilmente il best seller dell’irrequieto e ribelle cantautore texano. E non si era interrotta nemmeno quando, nei primi anni Novanta, il cantautore era entrato nella sua fase più maledetta e fuorilegge, stavolta senza virgolette: tossicodipendenza, possesso illegale di armi, carcere, riabilitazione. Questione di amicizia (tanta gente attorno quando le cose vanno bene, pochi ma buoni quando si mettono male) e di professionalità: Kelley Looney una volta dichiarò che la qualità delle canzoni e delle esibizioni di Steve Earle non era mai calata, nemmeno nei giorni più neri. Kelley era rimasto accanto a Steve, allora. Aveva aspettato che uscisse di galera e che affrontasse il periodo di disintossicazione. E si era fatto trovare pronto per la lenta fase della risalita, dal disco “I feel allright” in poi.

Steve Earle (al centro) & The Dukes. Kenney Looney è il primo da sinistra (foto Marco Noce)
Steve Earle (al centro) & The Dukes. Kenney Looney è il primo da sinistra (foto Marco Noce)
Steve Earle (al centro) & The Dukes. Kenney Looney è il primo da sinistra (foto Marco Noce)

Gli inizi e il disco solista - Passava con naturalezza dal suo vecchio basso elettrico (un Fender Precision scrostato e pieno di cicatrici) al contrabbasso, seguendo Steve Earle nei suoi vagabondaggi tra il boogie più mefistofelico e le ballate più dolci e disperate, quelle che strapperebbero una lacrima anche all’ascoltatore più incanaglito.

Prima di incontrare Steve Earle, Kelley Looney aveva suonato il basso per il suo ex compagno di college Eddy Shaver e, dal 1982 al 1987, per Connie Smith al leggendario Grand Ole Opry, il tempio del country. Cinque anni fa, dopo una vita da centrocampista della musica, si era concesso le luci della ribalta: aveva pubblicato un disco solista, “Black Sheep Blues”, il blues della pecora nera. Un bell’album, registrato nel corso di sette anni, nei momenti “buchi” tra un tour e l’altro, senza fretta. Tanto che alla fine sembrava non dovesse mai essere concluso. Fu, neanche a dirlo, Steve Earle a dargli la spinta decisiva: «Dài, Looney, finisci questa cosa». “Black Sheep Blues” si può scaricare da internet o ascoltare in streaming (kelleylooney.bandcamp.com/album/black-sheep-blues-2): il modo migliore per rendere omaggio a un uomo che ha onorato il suo impegno con gli dei della musica.
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