La scomparsa di Jean-Paul Belmondo costituisce un trauma difficilmente sanabile, da un punto di vista affettivo, in specie per gli appassionati della Settima Arte, che fin dai tempi della giovinezza vedevano in lui "l'uomo" alle prese con una realtà della vita colmo di insidie e, assai spesso, di sconfitte e cocenti delusioni.

Per capire la sua metodologia di esistenza bisogna ricorrere agli esordi, quando da perfetto sconosciuto, e spesso con ruoli ai limiti della goffaggine, si esibiva sul grande schermo; osservando però le sue mosse ed il modo di presentarsi, si intuiva quanto il tutto facesse parte di una personalità con precisa caratterizzazione.

Lo scrivente sceglie, a titolo di esempio esplicativo, una pellicola della seconda metà degli anni Cinquanta: "Una strana domenica", diretto da Marc Allegret, uno di quella fantastica batteria di cineasti transalpini che tanto lustro offrirono al mondo, forse sconosciuto ai più, nel quale i due protagonisti Bourvil e Danielle Darrieux, una coppia pericolosamente in crisi di reciproca comprensione, viene salvata con micidiali sotterfugi anche ai limiti dell'ilarità da una strana alleanza composta dai comprimari Arletty (il più grande genio femminile francese di sempre, qui nella parte conclusiva della carriera) e da un ragazzotto che definiremmo "imbranato", insicuro nel parlare e nel muoversi: era Jean-Paul Belmondo.

Non è una sorpresa che costui viceversa fosse conscio della propria lungimiranza, tanto che agli inizi dei Sessanta Jean-Luc Godard gli offrì da protagonista il film testamento che ha fatto epoca "Fino all'ultimo respiro", che rivisto ancora oggi nulla ha perso del suo fascino impagabile, dei severi ammonimenti, delle riflessioni che scaturiscono.

Belmondo fu, ancora giovane, nel suddetto film, semplicemente perfetto nell'interpretare lo sbando, le insicurezze, le fobie violente che si incuneano nella psiche dell'individuo privo di alcuna visione realistica della vita. Il suo girovagare scomposto alla ricerca del "nulla", il negare a se stesso l'inevitabile sconfitta imminente, il confidare nell'aiuto esterno della bravissima compagna occasionale Jean Seberg, rendevano ancora più cocente il dramma in arrivo. Ebbe un ultimo sussulto: alla fine, disteso esanime nel pavimento stradale, fissa la sua bella quasi implorandola di una condivisione; difatti lei copia alla perfezione le ultime espressioni facciali del moribondo. Questa pellicola segnò oltre oceano il primo significativo indizio di un impulso emotivo che dall'Europa si ripercuoteva in quell'America privata della presenza di James Dean.

Erano i primi albori che precedevano la Nouvelle Vague, teatro ideale il Quartiere Latino parigino, movimento questo che ricevette il testimone da parte del Neorealismo italiano di De Sica, Zavattini e Rossellini, tanto amato dai francesi.

I corollari scaturiti da "Fino all'ultimo respiro" potremmo dire si siano ripercossi in tutta la carriera di Belmondo, indipendentemente dal ruolo ricoperto. È quasi sempre uno sconfitto dalle avversità, dal destino, dalle profonde insicurezze che si porta addietro. Qualche eccezione come "L'uomo di Rio" deve considerarsi  un diversivo atto a decifrare le sue guasconate.

È proprio questa caratteristica che delinea la sua grandezza. Il pubblico, forse attratto dalla bravura e la predisposizione positiva verso la persona, ha individuato in lui uno "spirito allegro" che viceversa fa a pugni con le parti interpretate, a grande maggioranza negative, dubbiose, prive di scrupoli, condannabili senza riserve. La forza di Belmondo è stata proprio la predisposizione di farsi accettare indipendentemente dal valore, spesso miserrimo, della figura umana del protagonista: non è poco.

Ognuno ha in serbo le sue pellicole preferite. Lo scrivente ne presenta due. "Leon Morin, prete", di Jean-Pierre Melville. Notevolissimo,  anche se poco conosciuto. Qui veste gli abiti talari, ma le sue insicurezze si rinnovano implacabili in tutta evidenza. È mostruoso con la sua bravura per rappresentare il sacerdote che non sa, non vuole accettare le spinte affettive della bravissima Emmanuelle Riva. "La mia droga si chiama Julie", di Truffaut, con coprotagonista Catherine Deneuve: ambiente questa volta esotico, Belmondo sa o immagina che la sua bella possa essere una imbrogliona, ma non desiste. L'ingenuità si mischia alla paranoia, protagonisti e regista rischiano un clamoroso scivolone, ma la loro grandezza elimina ogni ostacolo. È forse la loro vittoria più importante, con un irripetibile finale che rimane scolpito nella memoria, segno di una potenza interpretativa dei due che nel paesaggio malsano arrancano felici mano nella mano.

Mario Sconamila – Finlandia

© Riproduzione riservata