Berchidda, sera del 14 agosto. Paolo Fresu e Alessandro Baricco sono sul palco di Time in Jazz, a Sa Casara. Non solo un musicista e uno scrittore: due uomini che hanno cercato la musica da angolature diverse, intrecciando le loro memorie.

Doveva esserci Alessandro Bergonzoni, assente dell’ultima ora, ma il sostituto non è stato per nulla un ripiego. Era già a Berchidda, invitato da Fresu che ha ricordato come altrimenti «non sarebbe stato facile andar via da qui». Invito accettato, sorriso d’intesa.

«La musica abbraccia tutto», dice l’artista isolano presentando Baricco. Nei suoi libri, ricorda, c’è sempre un ritmo, un suono che accompagna le parole, quasi fossero state scritte per essere ascoltate oltre che lette. Baricco sorride e cita Umberto Eco: «Diceva sempre: fidatevi di Wikipedia. Ma se riguarda voi, scoprirete solo inesattezze. Io non sono diplomato al Conservatorio, né sassofonista, come c’è scritto. Suono un po’ il piano da anni, e male. Ma ho messo la musica dappertutto: è stato il mio modo di elaborare il lutto di non aver avuto quel talento».

Da quel lutto, chissà, è nato un libro, poi un film: Novecento. Una storia di fantasmi, di amori transatlantici, di pianoforti che duellano col mondo. «Il jazz – ha spiegato – nasce dalle migrazioni, dall’incontro tra l’Africa e New Orleans. Le migrazioni hanno sempre generato meraviglie. Novecento è nato così, come un po’ di jazz».

Il dialogo è sincero e pieno di sfumature. Fresu ricorda la sua tromba custodita in una valigia con l’odore acre dell’olio per i pistoni, sua madre che gliela consegna dopo tanto desiderio, e lui che attraversa il paese perché tutti sappiano. Le bande, i matrimoni che a Berchidda duravano una settimana, i concerti nei paesi vicini, la scoperta del jazz alla fine degli anni Settanta. «Per me la felicità era uscire di casa e andare in sala prove. La mia fortuna è stata la banda, una comunità che ti fa crescere. Ho imparato lì che la musica è condivisione».

Baricco propone un’altra immagine, lontana eppure speculare: la Torino dei club ristretti, dei divani avvolti nel cellophane, dei dischi ascoltati gelosamente nelle sale. «Io sono figlio della piccola borghesia torinese. Mio padre mi portò a un concerto di Rubinstein: era l’ingresso in un mondo importante, la classe dirigente. La mia famiglia era semplice, padre geometra e mamma casalinga, ma diversa dalla Torino operaia. La vita è prolungare i lampi che vedi da bambino. Io ho provato a farlo con il pianoforte, pur senza diventare bravo. È come amare una donna bellissima con cui esci, ma senza mai andarci a letto».

Così, uno figlio di un pastore e l’altro di un geometra, hanno trovato due vie diverse per arrivare alla stessa domanda: che cos’è la musica? Fresu ha ricordato Massimo Urbani, figlio di un bidello romano, e i primi jazzisti italiani, figli della borghesia che potevano permettersi i dischi. Lui, invece, metteva Chet Baker a tutto volume a Berchidda e lo rifaceva con la tromba. «Un musicista è colui che respira musica, con o senza spartito. Chet Baker leggeva malissimo. Miles Davis sapeva? Ci interessa davvero?».

Baricco aggiunge un’altra suggestione: «Non dimentichiamo che per arrivare alla scrittura musicale ci sono voluti secoli. Già nell’anno Mille Guido d’Arezzo inventò la notazione, trasformando ut in do. Scrivere un concerto è un lavoro. Quando la scrittura non serve, è perché quella musica vola via, non resta».

Sguardi complici. Fresu cita Duke Ellington: la scrittura da una parte, l’improvvisazione dall’altra. «Io scrivo un brano ma voglio che la melodia viva attraversando i pensieri degli altri». E Baricco, con un mezzo sorriso, ricorda gli amici musicisti che guardano le classifiche senza riconoscere i nomi, con una punta di ironia: «Nei libri sai perché certi titoli sono lì. Nella musica, no. Per questo molti sono smarriti. E a volte si dice: eccoli, quelli non sono musicisti. Persino Pavarotti non lo era. Ma in fondo, cos’è che conta davvero?».

La chiacchierata non segue un ordine preciso: è un incrociarsi di memorie. Due storie lontane che, per una sera, si riconoscono nella stessa radice: la musica come destino.

E quando la sera arriva su Berchidda, tra le colline e i silenzi di un paese che conosce la forza della banda e del vento, le parole e le note diventano un tutt’uno. Arriva del buon vino bianco sul palco, e la tromba di Fresu insieme alle frasi di Baricco raccontano forse lo stesso desiderio: prolungare quei “lampi” – così li hanno definiti – che da bambini ti aprono il mondo, e che da adulti si prova a custodire con cura.

Non più un dialogo tra uno scrittore e un musicista ospitati da un Festival che ogni anno ritrova nuovo vigore ed energia, ma una storia unica, fatta di matrimoni che durano una settimana – Baricco ha ricordato che il suo è durato quindici minuti e si è svolto a New York – e di concerti che cambiano la vita in un istante, di pianoforti e di trombe portate in giro per il paese.

Il pubblico di Berchidda ascolta deliziato, come se tutto fosse già stato scritto nell’aria: che la musica, in fondo, è un modo di tenere insieme la memoria e il sogno. E che quando non sai cos’è – come ricorda Baricco in una sua frase di cui va fiero – allora è jazz.


 

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