A partire dalla domesticazione dell’asino, avvenuta circa 10.000 anni fa, il latte della sua femmina entrò presto a far parte dell’alimentazione umana. Già in epoca classica veniva vantato per le qualità nutritive e medicamentose da Erodoto, Ippocrate e Plinio il Vecchio (che ne descrisse dettagliatamente i benefici nella “Naturalis historia”) ma fu solo nel XIX secolo che se ne compresero appieno le potenzialità per l’infanzia: infatti, grazie all’opera “Hôpital des enfants assistés” del dottor Parrot, in Francia si diffuse la pratica di sfamare i piccoli orfani attaccandoli direttamente alle mammelle dell’animale.

Il suo impiego come sostituto del latte materno continuò fino al XX secolo, poi andò via via scemando, fino a essere quasi abbandonato nel primo dopoguerra; tuttavia, in questi ultimi anni, la popolarità del latte d’asina è tornata in auge grazie ad alcuni studi sui bambini prematuri. Quanto emerso è stato raccolto in uno speciale (recentemente pubblicato su Nutrients) alla cui stesura hanno contribuito anche il professor Vassilios Fanos e la dottoressa Roberta Pintus dell’AOU Cagliari - Terapia intensiva neonatale.

Nella pubblicazione si dà risalto al progetto Fortilat, dell’ospedale Sant’Anna e del CNR di Torino, che aveva l’obiettivo di valutare gli effetti del latte materno fortificato con latte d’asina sui prematuri, rispetto a un prodotto standard. Benché la nutrizione con il latte materno sia preferibile per i neonati, quello delle madri che hanno partorito prematuramente non è completo ed è quindi necessario fortificarlo, cioè aggiungere particolari principi nutritivi (proteine, calcio e fosforo) affinché i piccoli crescano bene.

Di solito la fortificazione avviene con il latte bovino, ma dato che può causare intolleranze e peggiorare il reflusso gastroesofageo (di per sé presente nei pre termine, a causa del tratto digerente immaturo) sono necessarie valide alternative.

Dunque, la squadra di ricerca torinese ha coinvolto 156 bambini nati prima della 32a settimana di gestazione e li ha suddivisi in due gruppi: 78 sono stati nutriti con il latte materno fortificato con latte d’asina, mentre gli altri 78 con il latte materno fortificato con latte bovino. Al termine di 21 giorni, 5 bambini per gruppo hanno sviluppato il reflusso ma in quelli che hanno preso il latte d’asina era meno grave (infatti la frequenza di rigurgito era minore).

Successivamente, al compimento del 18° mese, i bambini coinvolti nella prima fase di studio sono stati visitati dai ricercatori con lo scopo d’individuare eventuali differenze nella crescita (peso, altezza, circonferenza della testa) e nello sviluppo del sistema nervoso; non ne hanno trovato.

Questi dati ci suggeriscono che il latte d’asina possa essere considerato un’alternativa valida al latte bovino per la fortificazione del latte materno: infatti, oltre a favorire il normale sviluppo dei prematuri, è tollerato meglio dal loro apparato gastrointestinale. La ragione è da ricercare nella sua composizione, molto simile a quella del latte materno per quanto riguarda zuccheri, grassi (è ricco di omega-3, protettivi per il cuore) e proteine; il fatto che sia povero di caseine e altre proteine immunogene, lo rende più digeribile anche per i bambini con intolleranze alle proteine del latte bovino.

Non solo, il latte d’asina è ricco di sostanze capaci di stimolare le difese immunitarie e quindi di proteggere i neonati dalle infezioni, per esempio: gli oligosaccaridi sialilati (più abbondanti rispetto al latte bovino); la lattoferrina (che contrasta i batteri patogeni ferro-dipendenti e certi virus) e il lisozima (dotato di proprietà antinfiammatorie, oltre che antinfettive).

Gli studiosi hanno già brevettato un alimento funzionale a base di latte d’asina destinato alla nutrizione dei prematuri; si aspetta solo l’immissione in commercio.

Jessica Zanza

***

Il rapporto olfatto-obesità

L’olfatto è con ogni probabilità il più antico dei nostri sensi: le aree olfattive del cervello sono state tra le prime strutture cerebrali a svilupparsi e gran parte del resto del cervello si è evoluto attorno a questo nucleo originario. L’olfatto fornisce indicazioni sulla disponibilità e qualità delle risorse alimentari e condiziona il comportamento alimentare degli individui e conseguentemente il loro peso corporeo.

La stretta relazione tra olfatto e peso corporeo ha portato alla collaborazione tra il gruppo della professoressa Giorgia Sollai (Dipartimento di Scienze Biomediche), dedicato allo studio della fisiologia del sistema olfattivo, e quello della dottoressa Fernanda Velluzzi (Dipartimento di Scienze Mediche e Sanità Pubblica), endocrinologa e responsabile del Centro Obesità del San Giovanni di Dio, favorendo la relazione tra ricerca di base e clinica dell’Università di Cagliari.

I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista internazionale Nutrients, mostrano che la disfunzione olfattiva aumenta con il grado di obesità e che il grado di obesità aumenta con l’iposmia (ridotta funzione olfattiva). L’olfatto in un certo senso contribuisce nella scelta di quanto e che cosa mangiare. L’iposmia comporta una riduzione nella piacevolezza nel mangiare e riduce la capacità di valutare il contenuto calorico dei cibi. Questo induce gli individui con disfunzione olfattiva a preferire cibi saporiti, generalmente ad elevato contenuto calorico, come zuccheri e grassi saturi, a scapito di frutta e verdura e ad aumentare l’uso di sale e spezie per compensare la ridotta gratificazione che hanno nel mangiare. Inoltre, la disfunzione olfattiva ritarda il raggiungimento del senso di sazietà e questo prolunga la durata del pasto e la quantità di cibo ingerita.

In prospettiva, i ricercatori dei due gruppi stanno sviluppando ulteriori studi per comprendere meglio i meccanismi e fattori (fisiologici, genetici e ambientali) coinvolti nelle complesse relazioni tra funzione olfattiva e obesità, anche in relazione alle differenze legate al genere.

© Riproduzione riservata