Con 36.074 nuovi casi diagnosticati nel 2020 e un’incidenza del 19%, i tumori alla prostata sono i più diffusi tra gli uomini italiani, secondo i dati pubblicati lo scorso mese di ottobre dall'Associazione italiana di oncologia medica e dall'omonima Fondazione, insieme al Gruppo di lavoro 2021 del Registro tumori italiani, SIAPEC-IAP, ONS, Passi e Passi d’argento.

Una diagnosi tempestiva è auspicabile per intervenire in tempo sul tumore e avere maggiori probabilità di guarigione, ma nel caso dell’adenocarcinoma (la forma più frequente di cancro alla prostata, causato dalla proliferazione incontrollata delle sue cellule) la situazione è complicata dalla mancanza di screening adeguati.

Fino a pochi anni fa, il dosaggio del PSA (antigene prostatico specifico, una proteina prodotta dalla prostata presente nel sangue) veniva effettuato a tappeto sulla popolazione maschile per individuare i casi a rischio e i pazienti allo stadio iniziale (asintomatici); tuttavia, alla luce delle evidenze raccolte in trent’anni di studio e uso sul campo, questo esame si è rivelato poco affidabile perché non distingue come dovrebbe l'ingrossamento benigno e le lesioni pretumorali della prostata dal tumore al primo stadio, tantomeno permette di capire se si tratta di una forma a crescita lenta o rapida (dunque, aggressiva).

Per tutti questi motivi, al giorno d’oggi, il dosaggio del PSA si effettua solo quando il medico sospetta la malattia nei pazienti che abbiano già sviluppato i sintomi (urgenza e difficoltà urinarie, sensazione di vescica non del tutto svuotata, sangue nelle urine o nello sperma) insieme ad altri esami di accertamento; tra questi, il prelievo e l’esame del tessuto prostatico (biopsia) è l'unico che permetta di stabilire con certezza il tipo e lo stadio della lesione, ma si tratta di un esame invasivo che può causare febbre, dolore, emorragie, infezioni e il ricovero nei casi più sfortunati. Da ciò nasce la necessità di trovare nuovi biomarcatori più affidabili del PSA per lo screening dei tumori alla prostata.

A tal proposito, una ricerca pubblicata recentemente su Biomolecules potrebbe aver trovato il candidato ideale nell’agmatina: una sostanza prodotta dal metabolismo delle proteine (per la precisione di un loro componente, l’arginina) che, in base a quanto emerso da precedenti studi in provetta e sugli animali, sarebbe capace di controllare la proliferazione delle cellule, rallentando così lo sviluppo del tumore.

Lo studio porta la firma dei ricercatori dell'Istituto di chimica biomolecolare e dei dipartimenti di Scienze biomediche, Chimica e Farmacia, Medicina clinica e sperimentale dell'Università di Sassari, ed è stato condotto per capire se la misurazione dei livelli ematici di agmatina fosse capace di distinguere i malati dai pazienti a rischio o con ingrossamento benigno della prostata.

Ebbene, dopo aver esaminato il sangue di 170 pazienti del dipartimento di Urologia dell’AOU Sassari (92 con il tumore, 28 con lesioni pretumorali e 50 con l’iperplasia prostatica benigna) gli studiosi hanno constatato variazioni significative fra i tre gruppi, giacché i malati avevano i valori più bassi in assoluto, i pazienti con l’ingrossamento benigno i più alti, mentre quelli con lesioni pretumorali (a rischio) avevano valori intermedi.

Attraverso l’analisi statistica di questi valori, è stato possibile determinare un’accuratezza del 95,9%, ciò significa 95,9 diagnosi esatte su 100; un ottimo risultato se si considera che il minimo accettabile è dell’80% e che il test del PSA si ferma solo al 68,5%.

Evidenze incoraggianti, quelle emerse dallo studio, che supportano la validità dell’agmatina come biomarcatore per lo screening del tumore prostatico; attendiamo gli sviluppi di ulteriori approfondimenti che confermino tali potenzialità.

Jessica Zanza

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