Seduto sul letto, in quella stanza poco più grande di un armadio, mirò nuovamente la pagella. Con l'indice puntò ogni voce incolonnata, materia per materia, e poi virando a destra lo fece scorrere sino a fermarsi sul numero corrispondente. «Otto, nove, nove, otto, otto...», disse a mezza voce picchiettando con il dito sopra le cifre. C'era da andarne fieri, a parte… Era quel a parte, la variante non domabile da ragione, intelletto e impegno, che gli faceva salire il cuore alla gola e quasi gli levava il fiato. Inspirare con il naso, espirare con la bocca. Respirare con metodo e lentezza poi il fastidio e la vertigine, manco uno scalatore ad alta quota, sarebbero di lì a poco passati. Avesse avuto contezza ben prima di quella tecnica avrebbe evitato di tremare quando il preside lo aveva presentato alla classe. Ben altro ambiente rispetto a quello a cui era abituato. A parte i suoi abiti miseri, a parte quella mezza altezza, a parte lo sguardo superbo e forse persino schifato di quei nuovi compagni di città. Era quel a parte ad averlo messo da sempre in una strada in pendenza, sì, come un rocciatore. A parte il padre, a parte le finanze, a parte la salute. Maledetta salute. Come si può chiedere al proprio corpo di andare oltre ciò che per natura non riesce a fare? Mannaggia alla salute. Chiuse la pagella, la rimise sopra il minuscolo scrittoio e prima di salutarla la carezzò più volte, con cura. Fu un gesto rituale e scaramantico. Del resto ora serviva una bella dose di fortuna. Mai avuto fortuna e dunque ora, forse, sarebbe stata più propensa a estendergli i suoi servigi, visto che sino ad allora non si era mai scomodata. I requisiti, a dire della direzione del liceo, c'erano tutti. Tutti. Il punto è che nell'anno 1911 a fare richiesta per la borsa di studio nazionale (così gli avevano spifferato in segreteria, un bidello era sposato con una del suo paese) erano stati in migliaia e solo 39 avrebbero avuto l'opportunità di poter accedere agli esami di ammissione e da qui all'università. Ah, l'università! Un pizzico di buona sorte. Questo serviva, si disse, lasciando la stanza in maniche di camicia e dirigendosi in cucina. Nel pensionato non c'era nessuno con cui condividere quella attesa ma, del resto, in quegli anni aveva legato solo con Frau, camera accanto. Gentile e chiacchierone Dino Frau: aveva provato a introdurlo fra gli avventori dei caffè frequentati dagli studenti ma inutilmente. Dopo tanto insistere (e tanti «no, grazie»), si era arreso. Nonostante ciò, si presentava spesso nella sua stanza per offrigli un po' del ben di Dio che la madre gli preparava. «Si vergogna delle sue condizioni, ma è persona onesta e sincera», diceva Dino a chi spesso gli chiedeva di quello strano individuo, sempre a conca calara e libri sotto braccio. Alla fine, la fortuna quella mattina bussò alla porta del civico 49 del corso Vittorio Emanuele, in Cagliari, con il battere della dodicesima ora. Un trillo netto del campanello che si seppe distinguere dal rintocco della chiesa di Sant'Anna. Il ragazzo si infilò la giacchetta, scese per strada e con le mani ferme (dentro di sé vibrava come un infetto di malaria) prese la busta gialla dalle mani del vecchio postino. Ringraziò e decise di aprirla lì, subito, senza attendere. Tirò fuori un temperino che odorava di formaggio e agì con la maestria di un chirurgo. Rimise il piccolo coltello nella tasca interna della giacca ed estrasse con delicatezza il foglio piegato in tre parti. Lo aprì. Lo lesse e lo rilesse. Diventò paonazzo, un colore salutare che mai il suo corpo gli aveva concesso. Quindi iniziò a saltellare in direzione della fabbrica del ghiaccio per abbracciare suo fratello Gennaro. Rientrando al pensionato, quella sera di venerdì, Dino Frau si stranì. Una musica ritmata invadeva il corso. Insolito, pensò. Ancor più smarrimento provò varcando l'androne. Non v'era dubbio, quel suono accompagnato da canti e battere di piedi arrivava proprio dalla sua palazzina. Bizzarro, anzi strambissimo, ripensò. Fece le scale a due a due e giunto all'ultimo piano non dovette sforzarsi di cercare la chiave: la porta era spalancata e una massa di corpi lo accolse. Una festa, non v'era dubbio. Ma lì, da loro, non era possibile! Come d'uopo nel fine settimana tutti gli altri studenti erano rientrati ai loro paesi, la padrona di casa, Doloretta Manca, era a teatro e no, non poteva essere il suo ombroso coinquilino. Si fece largo fra decine di giovanotti, entrò in cucina e lo vide seduto sulla punta di una sedia. Incredibile. Stretto fra le sue mani con gran padronanza, faceva andare su e giù un organetto a mantice. «Antonio!», gli urlò ma lui, vuoi il battere dei piedi dei ballerini, vuoi per l'estasi in cui era immerso, non lo sentì. «Gramsci! Oh! Antonio!». Il ragazzo finalmente si accorse di lui. «Antonio! ma che succede?! Non dirmi che hai vinto la borsa… », Dino si emozionò e gli tremarono le labbra, «l'università… Torino!?», gli uscirono solo queste parole mentre l'altro gli fece timido un cenno d'assenso. La musica si fece più tenue. «Evviva l'università!!! Evviva Antonio!», urlò uno dei festeggianti e subito quella voce singola si fece coro.

Francesco Abate

Questo è un racconto di fantasia ma si ispira a un fatto reale narrato dall'avvocato Dino Frau nel libro "Vita di Antonio Gramsci" (Laterza) di Peppino Fiori.

© Riproduzione riservata