Monica J Romano, attivista transessuale milanese, segue da vicino la discussione sul ddl Zan perché attende da quando aveva 17 anni di vedere concretizzarsi un obiettivo che le associazioni Lgbt+ perseguono da sempre, quello di introdurre anche in Italia una legge contro l’omotransfobia: “Oggi di anni ne ho 42, faccia lei il conto”, racconta a Unionesarda.it. 
Di mamma spezzina e papà siciliano, ha deciso di rifiutare il genere maschile quando aveva 19 anni: otto anni dopo una sentenza del tribunale l’ha riconosciuta come cittadina con il nome di Monica.  Oltre che transgender, Monica Romano si dichiara non binaria: non si riconosce nello schema binario del genere, maschile prima, femminile poi nel suo caso. Ecco perché Juri, il ragazzo “androgino, gentile e delicato” che era un tempo e non è mai andato via, è rimasto accanto a lei, in quella J che utilizza tra il nome e il cognome. 
Autrice del saggio “Diurna. La transessualità come oggetto di discriminazione” (2008 Costa e Nola) e del memoir militante “Gender (R)Evolution” (2017, Ugo Mursia), ha sempre considerato l’attivismo come strettamente connesso al suo percorso di affermazione di genere.


Perché ha scelto di scendere in campo per i diritti Lgbt+?
“Mi sono resa conto che sulle nostre vite c’era una forte oppressione, soprattutto per quanto riguarda il diritto al lavoro, che alla comunità transgender è negato”.


Dopo la transizione ha avuto difficoltà a trovare un’occupazione?
“Erano tempi in cui vedere una donna trans arrivare in università era rivoluzionario. Dopo gli studi, ho cominciato a mandare curricula e mi sono accorta che le mie candidature venivano costantemente respinte. Quando ci siamo trovate in 20, 30, 50 donne trans e nessuna trovava lavoro, ci siamo rese conto che c’era un problema sociale. Per fortuna ero a Milano, già all’epoca all’avanguardia: qui ho potuto laurearmi e portare avanti un percorso di formazione che in altre città italiane sarebbe stato impossibile. In questo sono stata una privilegiata, non lo metto in dubbio”.


Aspetta una legge contro l’omotransfobia da 25 anni. Perché non è ancora arrivata?
“Siamo troppo indietro. Eppure in altri Paesi europei leggi simili sono state già approvate e ci si convive senza problemi. Io ho amiche londinesi che mi chiamano spesso e mi dicono ‘Ma come fai a restare in Italia? Come fai a lavorare lì?”.


Eppure dubbi sul testo sono stati sollevati da più parti, a destra e a sinistra…
“Il dibattito mainstream è di una qualità vergognosamente bassa, che non ho mai visto in vent’anni di attivismo. E’ sostanzialmente incentrato su fake news, su cui si fondano le teorie di chi osteggia il ddl Zan e che proliferano soprattutto in televisione. Spero che in Senato il livello del dibattito si alzi. Soprattutto su alcune definizioni come l’identità di genere, su cui non capisco perché si discuta ancora”.


In che senso?
“L’identità di genere fa riferimento a un diritto umano inalienabile, riconosciuto già dal diritto antidiscriminatorio dell’Unione europea, dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione in sentenze anche abbastanza recenti. Non stiamo parlando di un diritto di cui le istituzioni si occupano da ieri. Esiste una legislazione. Stralciare l’identità di genere, un diritto riconosciuto e regolamentato, è grave e inaccettabile”.


Perché allora è così contestata? 
“Perché mette in discussione il nostro sistema, anche quello educativo, che è patriarcale. Secondo me persone che avrebbero tutte le carte in regola per interloquire in modo serio e credibile, spinte da pregiudizi e omotransfobia, non ce la fanno. Ma non mi stupisce: siamo un Paese che per digerire i diritti delle donne fa la stessa e identica fatica”.


Non pensa che le persone transessuali siano già tutelate così come tutti gli altri?
“Qui si parla di moventi, non di persone: la legge Mancino, che già esiste, parla di odio razziale e antisemitismo. Noi vogliamo che venga estesa all’omotransfobia. Sono aggravanti, previste quando si va a colpire una comunità discriminata e marginalizzata. Esistono comunità più colpite di altre, questo non si può negare. Chi colpisce un ebreo, un nero, un trans, in generale determinate categorie di persone in quanto portatrici di una differenza, deve beccarsi l’aggravante perché non sta colpendo solo la persona ma un’intera comunità”.


Cosa risponde a chi sostiene che “non si potrà più dire nulla”?
“Se dire ‘brutta trans, devi morire’ sarà vietato io sono contenta. Esprimere un’opinione sarà sempre consentito, ma denigrare, offendere e veicolare odio sarà proibito. In uno spazio pubblico è chiaro che bisogna pensare prima di parlare, mi sembra il minimo. Fa paura un disegno di legge che mette nero su bianco che insultare qualcuno perché è diverso è sbagliato. Quindi si fa leva sull’ignoranza delle persone”.


Come andrà a finire la discussione in Senato secondo lei?
“Voglio sperare che andrà a finire bene, se così non sarà io credo che quella parte più radicale dei nostri movimenti che ci ha sempre seguito nell’esprimerci pacificamente, inizierà a staccarsi. Un ennesimo schiaffo in faccia alla comunità soprattutto Lgbt+ non porterà niente di buono”.


E se il ddl Zan passerà, che effetti avrà sulla società?
“Guardi, io non penso tanto a quelli della mia generazione: bene o male ce l’abbiamo fatta, ci siamo realizzati e abbiamo le spalle larghe. Io penso ai giovani, a chi oggi ha 16, 17, 18 anni. A chi inizia un percorso di autodeterminazione di genere e non sa che troverà un sistema culturale ostile. Io mi auguro che non lo scoprano mai, spero che la società cambi prima. Questi giovani hanno bisogno di protezione dall’odio in un Paese, l’Italia, dove c’è il maggior numero di omicidi di persone trans. Bene dunque le aggravanti, che potrebbero costituire dei deterrenti, ma soprattutto la costante educazione al rispetto delle differenze”.

Angelica D’Errico


 

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