Lo Stato imprenditore: l’editoriale del 4 dicembre 2025
Di Alberto MingardiQuotidiani italiani ed esteri hanno messo nel mirino il governo per un presunto intervento improprio nella vicenda Monte Paschi-Mediobanca. L’attenzione si ferma sul dettaglio di un messaggio che sarebbe partito (si sostiene) dal Ministro dell’Economia. Coglierlo in castagna di solito non è facile, ai giornali non par vero d’avere un pretesto. In generale, la peculiare natura del mondo del credito ne fa sempre una provincia della politica, non solo in Italia.
Sorprende, semmai, come altre vicende stiano passando sotto traccia. Per esempio, due di cui ha scritto Gianni Dragoni sul Fatto. Una è la privatizzazione del PagoPa, la società per i pagamenti digitali di multe e altro. Gli acquirenti sarebbero però il Poligrafico dello Stato e le Poste, cioè un’impresa in cui lo Stato comunque non molla la quota di controllo. E l’altra è la ventilata scalata di Poste Italiane a Tim, l’ex Telecom Italia, dove le Poste vorrebbero arrivare al 27%. Se a quella soglia fosse giunto ieri un azionista privato, per esempio l’odiato francese Vincent Bolloré, sarebbe scattato l’obbligo di OPA: avrebbe dovuto, cioè, prepararsi ad acquistare tutta l’azienda. Questo perché, come azionista “pesante”, potrebbe condizionarne le scelte, e bisogna offrire agli altri soci la possibilità di rinegoziare la propria partecipazione o di uscire. Ma la riforma del testo unico della finanza ha alzato la soglia al 30, ergo Poste non dovrà fare nulla del genere.
Tim ha avuto una storia sfortunata, perlomeno dall’uscita di Pirelli. L’essere sprovvista di un azionista stabile e con una visione di lungo termine è ritenuto uno degli elementi che l’hanno indebolita. Il problema del fatto che sia Poste ad apprestarsi a recitare quella parte è un altro. Poste non è più solo una società che si occupa di recapitarci lettere e pacchi, è una potenza finanziaria, a cominciare dalla prima assicurazione italiana nel ramo vita. Questo risultato è l’esito dell’ottimo lavoro di manager eccellenti. Che però continuano a rispondere all’azionista pubblico.
Di fatto, abbiamo rinazionalizzato l’operatore telefonico, operazione che non rientra più neppure nella logica di mantenere sotto l’ala dello Stato la gestione delle reti, dal momento che Tim è stata “separata” dalla sua rete, che ora appartiene al fondo americano KKR e alla Cassa Depositi e Prestiti,la banca dello Stato.
In Italia si vagheggia spesso il ritorno della “politica industriale”. Solo che non se ne è mai andata. Circa un terzo del listino di Borsa è riconducibile a imprese che, per quanto siano quotate, hanno lo Stato come azionista di riferimento. Questo ha conseguenze non da poco, sia sull’economia che sulla politica. Sull’economia: alcune delle maggiori imprese del Paese non operano solo sulla base della ricerca del profitto, che solitamente richiede di offrire al consumatore ciò che desidera. Quelle aziende sono, necessariamente, sensibili a richieste extra-economiche, nel caso in cui il governo gliele faccia: ciò può significare mantenere un certo livello occupazionale, ma anche mettere in campo questo, ovvero quell’investimento.
Il governo, ovviamente, non è male intenzionato, tutt’altro: prova a usare tutti gli strumenti a sua disposizione per risolvere i problemi. Ciò, però, a lungo andare, peggiora l’efficienza del sistema.
Sulla politica: qual è la posta in gioco, alle elezioni? Con una presenza così pervasiva dello Stato nell’economia, una delle risposte è: la possibilità di nominare i vertici di alcune fra le più grandi imprese del Paese. Materia poco appassionante per il grande pubblico ma cruciale per il sottobosco romano. L’intreccio fra politica e nomine è un campo minato di conflitti d’interessi. E la reputazione delle istituzioni soffre, se il governare è un distribuire poltrone.
Alberto Mingardi
Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”