C ’è da rimanere un po’ stupiti di fronte a certe narrazioni edulcorate sullo stato delle cose in Sardegna. Dovremmo per caso essere soddisfatti dei segnali economici e culturali o dalle attuali prospettive sanitarie, formative, infrastrutturali? Il 29simo Rapporto Crenos e Fondazione di Sardegna sull’Economia della Sardegna 2022 riporta crudamente alla realtà, ovvero alla carenza di capitale umano adeguato ai cambiamenti in corso, tecnologici e di mercato, e al disallineamento formativo, alla distanza abissale della Sardegna dalle regioni più sviluppate d’Europa.

L a Sardegna è 210ma su 231 regioni d’Europa in termini di giovani laureati, è nostro il primato in Europa per la minor incidenza di ingegneri e scienziati sul totale della popolazione attiva. Ci distinguiamo per la triste posizione di 182esima regione in termini di Pil (con un Pil per abitante che raggiunge appena il 68% della media dell’UE), la più alta spesa pubblica in Italia rispetto al Pil, 83%; la ridotta struttura produttiva col 96% delle aziende con meno di 10 addetti e il 76,7% dell’export dovuto a prodotti petroliferi e il resto concentrato su tre Paesi esteri ed essenzialmente su una sola tipologia di prodotto; il calo dei consumi delle famiglie, più forte che nel Mezzogiorno d’Italia; il primato negativo per la prima infanzia, solamente 13 su 100 bambini sardi tra 0 e 2 anni utilizzano servizi ad hoc; infine il calo demografico (la Sardegna ha il primato della più bassa natalità nell’UE, negli ultimi 10 anni crollata del 38,2%, peggiorando costantemente i dati di mortalità) e il contemporaneo invecchiamento della popolazione (242 anziani ogni 100 giovani).

Serve altro per fotografare una regione di 1.590.000 abitanti che si sta via via marginalizzando e spegnendo, anche perché la dipendenza dalla Pubblica Amministrazione, la mancanza di ricerca e sviluppo in genere e le carenze formative e sanitarie stanno limitando quasi irreparabilmente le opzioni strategiche a disposizione, ovvero il futuro possibile per i nostri giovani? Il nucleo attivo si sta riducendo e impoverendo nei redditi e nei contenuti, mentre la popolazione sta invecchiando e male (aumenta infatti l’utenza che giocoforza rinuncia alle prestazioni sanitarie).

In un quadro che non può non definirsi in disfacimento, ancora peggiorativa è la situazione delle zone interne. Non sono presenti dati disaggregati, ma la constatazione è di una Sardegna che, fuori dai poli di Cagliari e di Olbia-Gallura, presenta indici ulteriormente peggiori rispetto alle ultimissime regioni dell’Est europeo.

I dati demografici sono ovviamente quelli di maggior rischio socio-economico, ma il diavolo si annida fortemente in un approccio acquiescente e buonista che fa di una festa paesana una bandiera d’identità e rinascita, della vendita di panini con purpuzza o dall’apertura di una nuova estetista una speranza per il Pil, dalla costruzione di inutili piste ciclabili – ho in mente quella eclatante di Nuoro – un messaggio sportivo e sostenibile. Si vive di azioni a macchia di leopardo, sempre meno incisive su un tessuto che si smaglia, di proclami all’unità (quando non siamo d’accordo su nulla) e di continue richieste assistenzialistiche. Peraltro, anche a fronte di risorse pubbliche disponibili (PNRR) e di progetti (Einstein Telescope) che potrebbero contribuire a un rilancio, non siamo in grado di modificare il nostro sistema che rimane clientelare e di appartenenze. Il processo di declino accelerato sta in mano a una classe dirigente impreparata, incapace di visione (possiamo chiederci nel 2023 che idea di Sardegna abbiamo?) e non in grado a mio avviso di guidare n essuna svolta epocale.

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