I l primo decreto-legge approvato dal Governo Meloni ha già suscitato vivaci polemiche su ciò che ha stabilito ma anche su ciò che ha trascurato in tema di giustizia. Infatti, non è stato affrontata la drammatica urgenza dei suicidi in carcere, mentre tre sono stati gli argomenti posti al centro del decreto legge.

Anzitutto, sull’onda del rave party di Modena, è stato introdotto il nuovo reato di invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Il secondo punto riguarda il differimento della riforma Cartabia, che sarebbe dovuta entrare in vigore il 2 novembre e che è stata rinviata al 30 dicembre prossimo per carenze organizzative. Anche se il rinvio non compromette i fondi del Pnrr, alcune disposizioni potevano essere immediatamente applicate perché prescindono dall’aspetto organizzativo, come quelle che consentono al giudice di applicare con la sentenza le pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare per le condanne entro il limite dei quattro anni di pena detentiva, o anche il lavoro di pubblica utilità entro il limite dei tre anni o la pena pecuniaria entro il limite di un anno.

D eve essere chiaro che la “certezza della pena” significa che la pena deve essere effettivamente scontata, ma non significa certezza del carcere perché vi sono misure più efficaci di una pena detentiva sospesa. L’ultimo punto attiene al regime che impedisce ai condannati per i gravi reati previsti dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, se non si ravvedono collaborando con la giustizia, di accedere ai benefici penitenziari del lavoro all’esterno del carcere. La Corte costituzionale aveva già osservato in passato che talvolta la collaborazione con la giustizia può essere impossibile, inesigibile o irrilevante e aveva censurato un divieto automatico dei benefici; però, prima di dichiarare illegittima la legge, ha invitato il Parlamento ad adeguarla alla Costituzione.

Ora il decreto-legge interviene sull’intera disciplina di rigore, estendendola ad altri reati connessi con quelli ostativi. La concessione dei benefici penitenziari sarà possibile anche per il condannato per tali gravi reati che non collabora con la giustizia, ma spetterà a lui dimostrare di non avere collegamenti, né attuali né futuri, con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso. A tal fine, il condannato dovrà allegare elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Il giudice valuterà le circostanze personali e ambientali, le ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, la revisione critica della condotta criminosa, le eventuali iniziative del condannato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Per i medesimi gravi reati, cade l’ergastolo ostativo e si introduce la possibilità della liberazione condizionale all’ergastolano, come chiedeva la Corte costituzionale, ma sarà subordinata alle stesse condizioni previste dall’articolo 4-bis, dopo aver scontato trent’anni di pena e sarà poi sottoposto alla libertà vigilata fino a dieci anni.

In conclusione, il decreto-legge non sembra in linea con le pronunce della Consulta, talvolta pretende una prova impossibile e pare anche irragionevole laddove richiede la dimostrazione che in futuro il condannato non allaccerà rapporti con la criminalità. Vedremo se per la Corte costituzionale e per la Corte europea dei diritti dell’uomo la nuova disciplina sarà ritenuta compatibile con i principi di eguaglianza e della finalità rieducativa della pena.

Università di Cagliari

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