S i può parlare di vittoria dopo trent’anni? L’arresto di un criminale sanguinario a tre decenni dalle stragi di mafia che hanno sfregiato l’intero Paese è un successo investigativo davvero importante? Al di là dell’acceso dibattito - rilanciato dalle parole di Salvatore Baiardo, un tempo vicino ai fratelli Graviano - su una trattativa gestita dal boss malato, la data di ieri segna comunque un momento importante nella lotta alla mafia.

P erché, alla fin fine, il messaggio delle Istituzioni è potentissimo: “Prima o poi veniamo a prendervi”. Ecco perché l’arresto di Matteo Messina Denaro è sicuramente una bella notizia. Il fatto che il boss fosse nascosto sostanzialmente a casa sua, a Palermo, non deve neppure sorprendere perché a garantire protezione è spesso proprio l’ambiente: il latitante è più sicuro dove può godere di connivenze e coperture in un contesto tanto avvolgente quanto imaccessibile. Non a caso pure Totò Riina era in Sicilia. Non di questo, dunque, ci si deve stupire. Semmai colpisce come un latitante di quel calibro sia stato in grado di resistere così a lungo a una pressione investigativa che è stata fortissima nei primi tempi come negli ultimi. Gli investigatori hanno sempre lavorato assiduamente alle ricerche eppure, nonostante il grande spiegamento di forze ed energie, il boss è sfuggito alla cattura per un tempo lunghissimo. E questo fa pensare a tante cose. Innanzitutto all’esistenza di un nucleo impenetrabile nel territorio nazionale, e poi al fatto che la mafia è tutt’altro che finita: se sa resistere fino al 2023 coprendo un super ricercato è un’organizzazione forte e potente che gode di una rete di protezione enorme e fittissima capace di rendere inespugnabili fette importanti di territorio.

Eccolo il problema dei problemi: la mafia c’è ed è forte perché è in grado di sottrarre alla giustizia un criminale per la bellezza di trent’anni, alla faccia delle forze dell’ordine che non hanno mai mollato la presa. E ora che tutto è finito va sottolineato che le Istituzioni hanno saputo dare prova anche di grande civiltà. Le immagini di Messina Denaro che esce dalla clinica senza manette, le braccia tenute da una giovane carabiniera alla sua destra, un altro militare alla sua sinistra, le pistole nella fondina, dimostrano come in trent’anni siamo cambiati. Certo, il piazzale era circondato da carabinieri armati fino ai denti, inclusi quelli sul furgone che lo ha portato via, e dietro di lui un militare dei corpi speciali sorvegliava, pronto, prontissimo. Ma l’ostentazione del criminale in manette non c’è stata. Direte: c’è una legge che lo vieta. Certo. Ma anche questo fa parte del nostro cambiamento. Scusate se è poco, specie in un momento in cui l’arresto del boss segna una cesura tra un passato drammatico e un futuro ricco di incognite. La cattura di Messina Denaro chiude la stagione stragista 1992-93, l’epopea dei corleonesi, la narrazione dell’invincibile cosa nostra. E ora? Nonostante i colpi durissimi assestati dallo Stato in questi trent’anni, la mafia è viva e vegeta ma si propone in modo diverso, e noi sappiamo che servirà un nuovo approccio nella lotta alle cosche e nel racconto che se ne fa. Ed è questo il valore oggettivo del 16 gennaio, una bella giornata.

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