I mpressioni (di settembre) sul voto. L’elettorato italiano si conferma sempre più liquido, e una sua ampia percentuale si sposta da una parte all’altra dell’offerta politica con estrema facilità. È evidente che la prepotente crescita di Fratelli d’Italia non può essere andata solo a danno della Lega, ma si è alimentata anche di una parte del voto anti sistema che nel 2018 aveva premiato soprattutto il Movimento 5Stelle. I consensi somigliano ormai ai valori di un pacchetto azionario particolarmente mutevole: vince chi riesce a far coincidere il picco di valore delle sue “azioni” con la scadenza elettorale.

N e fa le spese Salvini, che tempo fa nei sondaggi volava verso il 30%: ha fatto di tutto per monetizzare quell’impennata e portare l’Italia al voto, ma non ci è riuscito e il titolo della Lega nel frattempo si è assai deprezzato.

Questo porta a una seconda riflessione: di fatto, i sondaggi in corso di legislatura hanno assunto quasi la funzione di un voto di medio termine, una verifica costante del gradimento dei partiti. Consultazioni di grado minore, che non modificano il numero dei parlamentari ma condizionano il ragionamento politico. I cinque anni di distanza tra un’elezione e l’altra appaiono ormai il passaggio tra due ere diverse. Tanto che oggi siamo tutti qui a parlare della rimonta del M5S, che in realtà si ritrova più che dimezzato rispetto alle Politiche precedenti, e ci sorprende in positivo l’8% di FI, che però aveva il 14: mentre il crollo della Lega lo misuriamo idealmente su quel potenziale 30% mai verificato dalle urne, anziché sul reale 17 delle scorse Politiche.

Il discorso vale anche per il Pd: il 19% finale risulta sia pur di poco superiore al 18,7 del 2018, e per altro nel frattempo c’è stata la scissione di Renzi (che allora era il segretario) e la nascita del Terzo polo, che ha pescato molto nel serbatoio Dem. Certo, questo non rende meno deludente il risultato del partito. Ma dare tutte le colpe a Letta sarebbe miope, ancor più che ingeneroso. Se bastasse sostituire un segretario come si fa con gli allenatori, il Pd si sarebbe rilanciato già sette volte. Il progetto democratico nasceva dall’idea di mettere in un patrimonio unico le eredità di due grandi tradizioni di popolo: ma è proprio l’anima popolare che si è persa. Se non la si recupera, l’ennesimo cambio in panchina non servirà a niente. (“Cosa sono adesso non lo so/sono un uomo in cerca di se stesso”: Pfm, Impressioni di settembre, 1972).

La dimensione popolare è forse ciò che ancora manca anche al Terzo polo (in realtà il quarto). Ma attenzione: il 7,8% sembra poco solo perché Calenda aveva fatto un temerario all-in, dichiarando deludente ogni percentuale sotto il 10. Potrebbe essere invece, in prospettiva, un primo nucleo di aggregazione di consensi più ampi. Del resto, nel 2018 FdI aveva il 4%. Chiaramente, andrà definito una volta per tutte il rapporto col Pd.

L’ulteriore conseguenza del ragionamento sulla mobilità dell’elettorato è un monito per chi oggi se ne avvantaggia. Giorgia Meloni sa che quei voti non sono “suoi”: molti elettori non si erano mai spinti così a destra, neppure al suo apice An si era avvicinata alla percentuale raccolta ora da FdI. Quindi sa anche che potrà consolidarli solo se darà risposte forti e concrete alla domanda di sicurezza (ma economica, più che di ordine pubblico) che i cittadini le rivolgono. Sfruttando il suo status di unica vera opposizione al governo di unità nazionale, Meloni non ha avuto neppure bisogno di promettere la luna in campagna elettorale. La flat tax e le pensioni a mille euro le hanno inventate i suoi alleati, lei semmai si è detta contraria a fare deficit per alleviare il costo delle bollette degli italiani, né più né meno la linea del suo presunto nemico Draghi. Un atteggiamento responsabile che ora però non la esime dal predisporre interventi urgenti contro la crisi. Poi verrà la politica estera, il presidenzialismo e tutto il resto: ma qui c’è un popolo intero che si sente improvvisamente impoverito, e vede corrodersi di continuo il valore del proprio stipendio (quando ne ha uno).

Da questo punto di vista, sarà interessante vedere le scelte del futuro esecutivo di centrodestra nei ministeri chiave. Per via della sua crescita così repentina, FdI non dispone di un’ampia classe dirigente che si sia formata nei governi locali e sia pratica di gestione pubblica. Dovrà trovare all’esterno del proprio nucleo storico molte delle competenze che servono per amministrare. Dalla qualità di queste scelte dipende buona parte della fortuna del prossimo governo.

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