E adesso? Potrà salire a Palazzo Chigi Giorgia Meloni, e scambiare il campanello con Mario Draghi nella più suggestiva cerimonia della politica italiana? Tanti si fanno la domanda su chi sarà il nuovo premier incaricato e sull’ipotesi che riguarda la leader di Fratelli d’Italia. Cittadini e osservatori si pongono questa domanda (antipatie o simpatie politiche a parte), perché ricordano cosa accadde nel 2018: da un lato Matteo Salvini rivendicava l’incarico dicendo: “Io sono il leader della coalizione più votata!”.

D all’altro Luigi Di Maio- quanto tempo è passato! - ripeteva: “Niente affatto: io sono il leader del partito più votato, spetta a me!”. E chi ritorna al lontano 2013, ricorderà il discorso di Pierluigi Bersani sulla “non-vittoria”, e l’infinita diatriba sull’incarico (pieno o non pieno) conferitogli da Giorgio Napolitano. Alla fine Bersani, fu avvolto in una melina istituzionale e fermato da una commissione di “saggi” nominata dal Colle. Il risultato finale di questo straziante balletto fu un tentativo abortito. L’impasse si risolse solo con l’incarico a Enrico Letta e il patto con Forza Italia.

Tuttavia oggi la situazione è del tutto diversa. Esattamente come nel 1994, per Silvio Berlusconi, e nel 1996 per Romano Prodi, esistono un leader e una maggioranza parlamentare. Anzi di più: il voto indica un leader di partito più votato, un leader di schieramento più votato, e un leader di maggioranza parlamentare, riassunti nella stessa persona: Giorgia Meloni. É vero come ricorda Letta che “la nostra è una Repubblica parlamentare”, che “il presidente della repubblica è sovrano”, ma la procedura costituzionale, dietro alcune apparenze barocche, ha regole semplici: se i capigruppo di maggioranza indicano un unico leader, quel leader (salvo impedimenti), ha il 99% di possibilità di essere designato. Non va dimenticato, ovviamente che l’inquilino del Colle è Dominus assoluto, non solo della formazione del governo, ma anche sulla tutela dell’immagine Italiana all’estero. Applica la lettera della Carta da garante, ma deve anche custodire l’efficienza del sistema, e la continuità istituzionale del Paese.

La parte più delicata, dunque, è quella che prende il nome da una pratica britannica, e viene chiamata “moral suasion”. Il presidente esercita quindi un potere, meno visibile e più discreto, quello di dissuadere i capi maggioranza e i presidenti incaricati, da passi o scelte che possono mettere a rischio i principi che ho appena ricordato. Accadde per esempio con Oscar Luigi Scalfaro, che pose un veto alla nomina di Cesare Previti a ministro di Grazia e Giustizia nel 1994 (considerava un conflitto di interessi il suo ruolo di avvocato di Silvio Berlusconi e il suo essere implicato lui stesso in procedimenti giudiziari). Un veto dello stesso tipo, venne posto nel 2018 dal presidente Mattarella nei confronti di un magistrato designato dal M5s, Nicola Gratteri (a suo avviso era troppo esposto nelle inchieste condotte sul confine delicato tra ‘Ndrangheta e politica). Produsse il rischio di una crisi costituzionale, istituzionale, un altro veto posto da Mattarella, che impedì a Paolo Savona di diventare ministro dell’Economia nel governo gialloverde: in questo caso, l’incompatibilità posta dal Colle fu quella dei rapporti internazionali. Savona era una economista che che contestava l’Euro: la nomina dell’economista sardo, avrebbe compromesso - per Mattarella - la capacità di raggiungere obiettivi nel negoziato con Jean-Claude Junker. Per Giuseppe Conte fu una fortuna. Mario Monti, un signore che conosce bene le istituzioni italiane e quelle europee (le ha frequentate entrambe, sia Palazzo Chigi, sia Bruxelles) mi ricorda che molti degli interventi di moral suasion non vengono mai alla luce. Si tratta di scelte e nomine che restano nel segreto del Palazzo, fra il presidente della Repubblica e il presidente del consiglio incaricato. Spiega Monti: “Un veto su Giorgia Meloni sarebbe un atto di scortesia istituzionale, ma anche la rottura di un galateo elettorale che l’Europa osserva sempre: un presidente del Consiglio votato dagli elettori che si conquista una maggioranza sul campo viene considerato legittimo, non sottoponibile a vero preventivo”. E per fortuna. Tutt’al più il nuovo leader viene atteso alla prova del budino. Nel pieno di una crisi energetica e bellica, e con una manovra da votare subito, la prova di Giorgia avverrà nei primi trenta giorni. Il primo governo che non va in luna di miele.

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