A ll’inizio dell’anno si fanno tanti buoni propositi. Alla fine, buona parte non si realizza, perché il tempo è tiranno, perché vengono dimenticati quelli più scomodi, per pigrizia, per mancanza di coraggio, perché gli imprevisti dominano le giornate, cambiano la rotta, perché la vita è diventata un compulsivo desiderio senza meta, perché “domani è un altro giorno”. Che giorno è?

I l mio desiderio per il 2023 è quello di poter andare avanti nel viaggio della conoscenza, dello studio, della scoperta. Da bambino le mie giornate erano un’avventura nell’immaginario, diviso tra le scorribande coi miei piccoli amici a Cabras. Era un’altra Sardegna, per me e per tutti in noi.

Nelle famiglie si parlavano (o meglio, mescolavano) due lingue, quella sarda e l’italiano. Non c’era un’opzione, certe cose erano per il sardo, altre per l’italiano. Dovevi conoscerle entrambe, perché c’era un mondo che non poteva essere scoperto con un altro codice. “Sa limba” era la chiave d’accesso, prima di tutto per parlare con gli anziani del paese, con i nonni, con i genitori che usavano parole dal suono antico per dare un colore originale ai momenti della vita. L’italiano era la lingua dello Stato, della scuola, dell’ufficio pubblico, di una comunità più grande che stava al di là dei nostri confini segnati dalla costa, un luogo lontano, oltre il mare, alla fine di quella traversata con una nave della Tirrenia che per tutti noi fu una sorta di “iniziazione”, quella di posare i piedi su un altro suolo, toccare e sentire, netto, il distacco dalla Madre Terra, la scoperta del “continente”.Non ho mai vissuto la sardità come “isolitudine”, non coltivo nostalgie ma nessuno può negare che questa dimensione sia un fatto metafisico potente, una forza che scolpisce ognuno di noi. Nel sardo che va e viene (e non resta) lo scenario si traduce in amore e odio. Tutti noi, quelli del “pendolarismo sardo”, siamo intrappolati in questa storia, azione e reazione, dolce e amaro. La conseguenza è che nessuno pianifica il ritorno a casa per il semplice motivo che quella casa ha dissipato anche l’identità in un folklorismo da esibire all’uomo bianco, al turista (non più viaggiatore), al visitatore importante, una sfilata del pittoresco senza alcuna coscienza critica. Chi siamo? Silenzio. Su tutto questo, forse è giunta l’ora di scriverci sopra un libello. Dopo 17 traslochi, una vita nomade, cosa ne è di “quella Sardegna?”. Non c’è, perché non può esserci più. Il processo di “disincantamento” non ci ha risparmiato, anzi ne siamo stati travolti. Provate solo per un istante a immaginare la vita in ognuno dei 377 comuni dell’Isola. Ecco, l’effetto è proprio quello che state provando: lo smarrimento, la vertigine per la varietà, la complessità e la scarsità di risorse (comprese le idee, non è solo una questione finanziaria) di fronte a problemi che si accumulano da decenni. Il decadimento sardo è una storia sotterranea, uno spegnersi senza luce che comincia con il fallimento della politica industriale degli anni Settanta e prosegue senza sosta fino ai giorni nostri.La risposta a questa crisi è stata non il passo indietro dello Stato (che aveva fallito la sua missione già 40 anni fa), ma la sua inesorabile avanzata. In Sardegna il rapporto tra spesa pubblica e Pil è tra i più alti d’Italia (leggere gli studi del Crenos) e questo rapporto di dipendenza è destinato a aumentare dopo gli interventi straordinari per la pandemia. Gran parte delle risorse (l’84,8% nel 2019) finanzia la spesa corrente, non gli investimenti. Se tutto va bene, si mantiene la macchina pubblica, un’entità, una “cosa kafkiana” che assorbe tutto, rigorosamente accompagnata dal suono delle launeddas.Il mio lavoro consiste nello scandagliare gli eventi profondi, segnare sul mio taccuino quali sono i trend della contemporaneità. La Sardegna è dentro e fuori. Dentro, perché subisce l’impatto di forze che curvano il presente e plasmano il futuro; fuori, perché non si prepara a governare l’inevitabile collisione con la storia. Il dato più evidente di questo fatalismo del domani è lo spopolamento e la polverizzazione dei nuclei familiari. Un solo numero, sconvolgente: nel 2030 (domani) il 40% dei sardi vivrà da solo. Il problema a brevissimo non sarà l’isolitudine, ma la solitudine.

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