S ono passati sei anni da quel decreto legge (per l’esattezza il 91 del 2017) col quale l’allora ministro De Vincenti, per primo, ha regolamentato le zone economiche speciali (Zes). Venne usato un decreto legge, a fine legislatura, per colmare con urgenza il ritardo che il nostro Paese aveva accumulato rispetto ad altri, dentro e fuori il Mediterraneo, che ormai da tempo si erano organizzati con Zes molto ben equipaggiate e performanti. E si erano così create 8 Zes, da ubicare nelle regioni meridionali ricadenti in obiettivo transizione e convergenza.

Qu elle regioni sono Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. La normativa prevedeva l’adozione di decreti ministeriali che completassero rapidamente il quadro e dotassero queste zone di mezzi giuridici ed economici adeguati a competere sullo scenario internazionale, in particolare rafforzando i nessi economico-funzionali tra le aree produttive e i porti, anche perché l'80% delle merci viaggia via mare ed il Mediterraneo, specie dopo il raddoppio del canale di Suez, è un bacino molto trafficato e pieno di opportunità.

Da allora molte cose sono cambiate. Alcuni dei decreti attuativi non sono mai stati adottati. È invece intervenuta almeno una decina di provvedimenti di legge che hanno cambiato radicalmente la governance di queste Zes, i poteri , le competenze e la composizione degli organi dirigenti, l’ubicazione e la perimetrazione di queste aree, gli incentivi economici e fiscali e molte altre regole relative a diritti ed obblighi delle imprese che le Zes avrebbero dovuto attrarre. Da ultimo, il governo è intervenuto con un ulteriore decreto legge che ha nuovamente capovolto il quadro e cambiato ulteriormente tutti i connotati salienti della architettura giuridica ed economica delle Zes, sopprimendo tutte quelle sinora istituite e creandone una, unica, per tutto il Mezzogiorno. In buona sostanza, in sei anni, si sono prima coinvolte e poi escluse le Regioni, le quali inizialmente hanno avuto il compito di progettare interamente le Zes. Si sono prima coinvolte e poi escluse le Autorità di sistema portuale, a vantaggio di commissari governativi nominati con grande ritardo e poi subitaneamente revocati. Si sono prima concepiti e organizzati e poi depennati i rapporti economici e funzionali tra aree produttive e porti. Si è fatto e disfatto, nel giro di un anno, un piano sui grandi investimenti. Il tutto, con l’ambizione di attrarre investitori attraverso la previsione di incentivi economici e fiscali con durata mai superiore al triennio e con dotazioni finanziarie messe e tolte, ogni volta, in occasione della finanziaria di fine anno. Difatti, anche l’ultimo decreto legge prevede un credito di imposta valevole per il solo anno 2024.

Insomma, si è proceduto a singhiozzo, con una visione mutevole ed obiettivi imperscrutabili. Più che una programmazione strutturata di investimenti, la vicenda delle Zes assomiglia dunque ad una caccia al tesoro, con il sicuro pregio di aver tenuto per anni, col fiato sospeso, amministratori e operatori, pubblici e privati. È vero, non sono mancati i problemi e molti interventi normativi sono stati varati per correggerli. Sicuramente chi è intervenuto lo ha fatto in buona fede e nell’intento di migliorare il quadro. Attenzione però: cambiare continuamente le regole del gioco, quando la partita è iniziata, non è mai consigliabile, specie quando si ha a che fare con investitori internazionali geograficamente e culturalmente lontani da noi. Si rischia di fare un passo avanti e due indietro. Poiché si mette in pericolo il maggior capitale che, nel contesto inter nazionale, si può avere a disposizione: la credibilità.

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