L a striscia di Gaza city, la città dei palestinesi, il territorio più densamente popolato al mondo da ieri è senza acqua ed energia elettrica, stretta d’assedio nell’imminenza di un attacco militare. Israele prepara la grande rappresaglia per la feroce e sanguinaria strage di Hamas, e gira le sue carte rivelando il proprio piano militare: entrare dentro l’alveare urbano dove si nascondono i terroristi, provare ad eradicare l’organizzazione islamista con una complicata operazione di terra. A questa minaccia gli uomini di Hamas replicano, in queste stesse ore, con un proclama barbarico: “Ci sarà un ostaggio israeliano morto per ogni edificio della città abbattuto senza preavviso”.

Tutto questo in aggiunta alle centinaia di innocenti già morti, senza colpa, in queste ore: i settecento cittadini israeliani martoriati nei raid a sorpresa, e i 400 palestinesi rimasti sotto le bombe della rappresaglia dell’esercito di Tel Aviv: tutte vittime incolpevoli del conflitto.

La guerra aperta da quello che è stato definito - giustamente - “l’11 settembre di Israele”, dunque, è solo al suo secondo capitolo, ma è già diventata una minaccia terribile, non solo per coloro che rischiano di essere colpiti direttamente a partire da stasera (in primo luogo civili innocenti sia palestinesi che israeliani, trasformati, come abbiamo visto in scudi umani). Ma la minaccia più grande riguarda il mondo intero, e persino noi, che siamo molto più vicini di quanto non crediamo all’alveare di Gaza.

C on un titolo molto azzeccato, tre giorni fa il Fatto quotidiano ha definito questo conflitto come il possibile innesco di “una guerra mondiale a rate”. È una provocazione, certo, ma ci aiuta a capire: il conflitto in Israele non ha apparentemente nessun collegamento con quello dell’Ucraina, ma ne riproduce in scala tutti i terribili rischi che abbiamo già imparato a valutare. Finisce in mondo del bipolarismo, della guerra fredda e della deterrenza, e nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare che lo avremmo rimpianto. Ancora fino alla guerra dell’Ucraina - infatti - la Russia aveva giocato in questa area (vedi la guerra civile in Siria e Libia) una funzione di stabilizzazione e di barriera contro l’integralismo islamico dell’Isis e il suo tentativo di evolversi dalla condizione di organizzazione terroristica pulviscolare a Stato.

Adesso la Russia è considerata un nemico primo dall’Occidente e ha stretto, anche per questo, un legame di ferro con l’Iran (che, ad esempio, gli le fornisce i droni, arma decisiva di quella guerra europea). Ma non forse è l’Iran, insieme al Qatar, il principale sostenitore delle milizie di Hamas? E non c’è forse l’Iran anche dietro Hezbollah, la milizia libanese che in queste ore minaccia Israele da nord, e che potrebbe entrare in guerra dilatando i confini del conflitto? E cosa farà l’Egitto del generale Haftar?

La guerra mondiale a rate non è dunque un gioco di parole ma una nuova dimensione del conflitto che ribalta lo schema cardine delle relazioni internazionali con cui è stato governato il mondo dalla conferenza di Yalta alla caduta del muro di Berlino. In quel tempo i tanti conflitti che esplodevano sui “teatri locali” erano sottoposti alla logica ferrea del muro contro muro tra est e ovest. Ma proprio per questo un ordine più alto impedì, per fortuna, che la crisi di Cuba innescasse una escalation nucleare. Persino la Guerra della Corea e del Vietnam poterono chiudersi in nome di un interesse superiore, il rapporto di forza tra le due superpotenze che erano l’arbitro ultimo dei destini del mondo.

Ma oggi? All’asse est-ovest si aggiunge quello tra nord e sud, alle armi convenzionali si aggiungono quelle non convenzionali, agli eserciti e alle milizie che si combattono in Africa e Medio Oriente, come ben abbiamo imparato, a nostre spese, negli anni duemila, si aggiungono le minacce non convenzionali dei kamikaze e dei terroristi che eleggono a loro obiettivo i civili e i paesi dell’Occidente. Avremmo davvero bisogno di una grande arbitro che si adoperasse per disinnescare questo ennesimo conflitto israelo-palestinese, gravido di tutto le terribili conseguenze che possiamo immaginare. Avremmo bisogno di leader carismatici impegnati in processi di pacificazione, che non ci facessero rimpiangere i giganti del passato, come Yzthak Rabin, ucciso dagli integralisti ortodossi nel 1995, proprio perché aveva portato una intera nazione allo straordinario traguardo dei due popoli e dei due Stati, con il patrocinio degli Stati Uniti, e con l’interlocuzione decisiva di Yasser Arafat. Ma oggi? Oggi il campo, i media, il racconto pubblico sono dominati dalle immagini dei tagliagole e dai bollettini di morte. Siamo sull’orlo dell’abisso ma pensiamo che questa crisi sia lontana da noi, come una adrenalinica serie televisiva.

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