I n uno dei principali quotidiani nazionali, un giornalista si cimenta in un’avventurosa analisi dell'andamento del Pil italiano, così sviluppata: «Per l’Italia, lo scorso anno, lo shock economico valeva un balzo del 15% del Pil, dal - 9% del 2020 al + 6% del 2021».

Ora, è abbastanza usuale leggere ardite confusioni e sovrapposizioni tra stato patrimoniale, conto economico e flussi finanziari, oppure vedere grafici senza senso in cui si confrontano quantità assolute con percentuali, o ancora assistere a frenetici dribbling tra conto delle partite correnti, deficit e debito. Eppure in una pagina economica non si dovrebbe assistere a una tale tragica “consecutio”, c’è da augurarsi non dettata da crassa ignoranza ma da intento manipolatorio e sfrenata piaggeria verso il governo (comprensibile vista l’ammucchiata che lo sostiene per conservare le poltrone).

I numeri non raccontano bugie, dicono gli inglesi, ma i numeri li danno i bugiardi. Occorre dunque tornare ai fondamentali per rimettere le cose a posto. Il Pil, Prodotto Interno Lordo, ovvero il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in un determinato arco di tempo, è una grandezza espressa in valori assoluti e riferita a un anno solare. Supponiamo per comodità che il Pil italiano nel 2019 sia stato pari a 100 miliardi. Se il calo del 2020 fosse stato del 10% portando a un valore del Pil di 90 e ci fosse stato poi un rimbalzo del + 10% nel 2021, saremmo arrivati a 99 miliardi (90 + il 10% di 90) senza neanche raggiungere il valore 100 del 2019.

P erché in questo caso secondo l’errata analisi si sarebbe visto un balzo del Pil del 10 + 10 = 20%!. La matematica spiega la realtà: quanto più perdo percentualmente in capacità di produrre beni e servizi, tanto più è difficile risalire la china. Immaginiamo di perdere in un anno il 50% di 100 e passare a 50. Se l'anno seguente riesco ad aumentare del 50% arriveremo a un misero 75 (50 + il 50% di 50), ben lontano dall'originario 100.

La variazione del Pil italiano tra il 2020 e il 2019 sembra sia stata del - 8,9%; il rimbalzo tra il 2021 e il 2020 del + 6,5% e tutti hanno gridato al miracolo. La perdita complessiva non è stata ancora recuperata, ma sino a ieri la speranza era di ritornare al nostro 100 entro la primavera. Sappiamo che questa previsione è già sfumata: l'ultimo Def, il Documento di economia e finanza approvato dal Consiglio dei ministri la settimana scorsa, considera un aumento del Pil 2022 del 3,1% rispetto al 2021, e ben si comprende quanto si tratti di una speciosa bugia per annunciare che il raggiungimento dei livelli del 2019 venga solo spostato di qualche mese.

In realtà tutti gli analisti concordano su aumenti molto più contenuti e comunque fortemente dipendenti dalla guerra in Ucraina e dalle decisioni sulle forniture russe. A parità di condizioni attuali, se la guerra dovesse durare, è difficile pensare a un significativo aumento del Pil, anche perché il tessuto produttivo sconta le distruzioni di diverse ondate di crisi. Un ristorante che chiude non è detto che potrà riaprire in un prossimo futuro; un allevamento che fallisce, quali probabilità ha di ripartire domani? Una fascia di popolazione che scivola nella povertà richiede una generazione per riprendersi, non mesi. A questo si aggiunga il pericolo di rinunciare alle forniture russe, ipotesi che i nostri governanti sembrano non giudicare una iattura. Draghi chiede retoricamente: «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?» e inciampa in una serie di critiche. Non è in gioco una sudata ma un’incontrollabile recessione a causa dei contraccolpi su tutto l’apparato produttivo italiano, stremato e privo di materie prime. E sarebbero sempre le fasce deboli a pagare il prezzo maggiore, come per l’inflazione che già sta svuota le tasche. In qualche modo siamo co-belligeranti e molti italaini non sono d’accordo su questa decisione. Ma a prescindere da ogni valutazione etica e politica, sentir edulcorare la realtà economica quando una guerra incombe suscita perplessità e amarezza.

© Riproduzione riservata