C osa c’è di diverso? Le immagini del sangue, dei morti, delle città distrutte, delle persone in fuga, delle sirene che bucano il tetro silenzio di quartieri improvvisamente deserti, dei volti impauriti in cerca di riparo sotto terra o sotto i ponti, della disperazione di chi si ammassa alla stazione dove prendere un treno che porti via dall’inferno, delle lacrime che sono dolore e felicità per chi partorisce nella metro o si sposa tra le macerie, cosa hanno di diverso da quelle che abbiamo visto in tutti questi anni? La ex Jugoslavia, le Torri Gemelle, la Siria, l’Afghanistan, il Bataclan, i migranti travolti dalla furia del mare, quelli respinti alla frontiera polacca, la stessa Ucraina quasi dieci anni fa.

Perché questa volta sentiamo e vediamo e viviamo tutto così vicino fino a farci prendere da qualcosa che assomiglia all’ansia ma in realtà è molto peggio, è attesa di qualcosa di brutto, terribile, qualcosa che avevamo cancellato dalla nostra memoria perché pensavamo definitivamente archiviata nonostante le guerre - convenzionali o no, dichiarate o terroriste, vicine o lontane - non abbiano mai smesso di insanguinare il mondo? Perché le bombe di Kiev risuonano così forte nella nostra quotidianità, scandita dalla crisi economica, dal Covid, dal lavoro che non c’è? Pensavamo fosse quello il peggio per una generazione che si credeva fortunata: un nemico invisibile che blocca il mondo senza distinzioni mostrandoci la nostra fragilità, la nostra impossibilità di governare ogni cosa, la nostra impotenza davanti alla natura .

N on tutto è spiegabile razionalmente ma forse questa volta sì. Perché noi, che abbiamo studiato la seconda guerra mondiale nei libri di storia e sentito i racconti dei nostri nonni che abbandonavano le loro case, e poi tornavano, nella speranza di trovarle ancora in piedi, e molti no, non le hanno ritrovate, perché Cagliari ha pagato un prezzo altissimo alla guerra; noi, con l’infanzia segnata dalle foto del fungo atomico e di quella bambina nuda che scappava da chissà dove diretta da nessuna parte; noi, che siamo diventati adulti sentendo, e a nostra volta ripetendo, che non sarebbe successo più. Mai più. Ecco: noi abbiamo introiettato quel pensiero e abbiamo abitato una società costruita sulla consapevolezza diventata certezza che davvero l’uomo non avrebbe potuto decidere l’annientamento di se stesso.

L’assetto geopolitico scaturito dagli eventi degli Anni Quaranta non era certo quello ideale, avendo lasciato troppe questioni aperte, basti pensare alla Palestina, con tanti fronti di fuoco e nuove micce da spegnere. Eppure, la cosiddetta Guerra Fredda, in un pianeta diviso in due blocchi, che ci ha accompagnato fino alla fine del secolo scorso (il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca e Los Angeles risale al 1980 e 1984, l’altro ieri), è finita, e si è sbriciolato anche il muro che divideva una città, una capitale, un Paese, un continente. Nel 1989 eravamo tutti a Berlino con la testa e col cuore, felici. Quando poi è diventata realtà l’Europa, costruita su quelle macerie affinché non ci fosse più un conflitto a separarci, abbiamo cominciato a viaggiare, addirittura senza passaporto, e imparato una nuova parola: globale. Così abbiamo sistemato le paure nei fogli ingialliti di un album. Ma ora: qualcuno ha l’impudenza di parlare di una guerra nucleare, ed ecco che lo spettro della bomba atomica si aggira sulle nostre vite. L’attacco vicino ai reattori lo ha dimostrato: non sono solo parole. E noi, ognuno di noi, cosa possiamo fare? Diciamoci la verità: nulla. Possiamo anche sventolare le bandiere arcobaleno e gialloblù e riempire le piazze di tutta Europa sapendo, però, che non cambierà niente. Siamo tutti per la pace, e ammiriamo la resistenza di quegli uomini e quelle donne, e apriamo le nostre case e li ospitiamo, ma bastano poche persone per decidere una guerra.

Per questo le immagini in arrivo dall’Ucraina, terribilmente uguali a tutte quelle che in questi anni sono arrivate sulle nostre tv da ogni angolo del mondo, ci appaiono diverse. Egoisticamente diverse. Non è questione di vicinanza geografica, i Balcani sono a un tiro di schioppo, il Belgio e la Francia insanguinati dai terroristi pure, per non dire dei disperati in fuga dalla Libia, di fronte alle nostre coste. E’ piuttosto la nostra paura più grande che riaffiora. Il tabù dell’umanità.

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