“F rom the river to the sea, Palestine will be free” (dal fiume al mare la Palestina sarà libera). Quest’appello, riemerso prepotentemente nel dibattito politico connesso alla guerra tra Hamas e Israele, è oggi al centro di una violenta controversia, come dimostra la censura votata dalla Camera dei Rappresentati nei confronti della deputata Rashida Tlaib, prima donna palestinese-americana a prestare servizio al Congresso degli Stati Uniti, rea di averla utilizzata, e dai più ritenuta antisemita. Il fatto ha destato molto clamore.

E ciò nonostante a Tlaib abbia precisato come si fosse trattato di un appello alla libertà, ai diritti umani e a una pacifica coesistenza, e non alla morte e distruzione di Israele. La polemica è strettamente connessa all’uso che della frase ne ha fatto l’organizzazione terroristico-militare Hamas. La frase compare nei suoi documenti sin dal 2012, quando il leader Khaled Meshaal dichiarò: “la Palestina è nostra dal fiume al mare e dal sud al nord”. Essa è divenuta un efficace slogan delle proteste palestinesi ed è considerata da Israele un appello alla sua distruzione.

La primogenitura dell’appello per una Palestina libera “dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)” e che comprende Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, è attribuita a Hamas, ma in realtà essa risale agli anni Sessanta, quando l’Olp di Yasser Arafat auspicava la creazione di uno Stato democratico e laico in tutta la Palestina storica. Oggi come allora si insisteva su un punto a mio giudizio dirimente, ma che è marginale nel dibattito pubblico-politico sulla guerra in corso, ossia che al popolo palestinese non sia mai stata concessa una vera libertà di scelta, sia da parte di Israele che dei regimi arabi, né tantomeno dai terroristi di Hamas.

La Storia è l’insieme di fenomeni accaduti in determinati momenti; spesso le date sono le prime a essere ricordate, perché giustamente importanti. Partiamo allora da una data simbolo per la storia della Palestina, il 29 novembre 1947, quando l’Assemblea generale dell’Onu votò la sua spartizione per la creazione di due Stati. I sionisti esultarono perché ottenevano la risposta alle loro aspirazioni, la nascita dello Stato di Israele, ma la componente araba si oppose perché intendeva la Palestina una patria indivisibile. Un’aspirazione legittima, come doverosa era la concessione di una terra agli ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma la definizione dei confini dei due erigenti Stati inasprì le posizioni, come dimostrarono sia gli scontri tra ebrei e arabi sia le rimozioni forzate dei palestinesi dalle loro terre nelle aree assegnate a Israele.

Episodi che dimostrarono ben presto quanto difficile potesse essere una futura convivenza, tanto più che ai palestinesi non venne garantita una libera scelta: una minoranza di essi venne inglobata da Israele, mentre la restante parte venne destinata a vivere in territori, Gaza e Cisgiordania, allora sotto il controllo di Egitto e Giordania; l’azione repressiva attuata da Il Cairo e Amman a partire dal 1948 ha impedito ai palestinesi di esprimere le proprie idee politiche.

Come ha osservato Maha Nassar, docente di storia del mondo arabo all’Università dell’Arizona, la convinzione che la Palestina libera dello slogan citato in apertura porterebbe necessariamente all’annientamento degli ebrei israeliani è radicata in presupposti profondamente razzisti e islamofobici su chi siano e cosa vogliano i palestinesi.

Per lavorare a una pace giusta e duratura occorre smettere di prendere acriticamente parte a una causa per interessi che il più delle volte deviano da essa (come s pesso accade nel mondo arabo e nelle piazze europee, dove sempre più vergognosamente emergono rigurgiti antisemiti) e cercare di comprendere cosa realmente vogliano i palestinesi.

Università di Cagliari

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