L a proposta di legge sul salario minimo avanzata dai partiti di sinistra divide il sindacato. Sono favorevoli Cgil e Uil, per i quali serve a tutelare i lavoratori (4,3 milioni nel 2021, secondo le rilevazioni Inps) che prendono meno di 9 euro all’ora. Sono invece contrarie Cisl e Ugl, che temono conseguenze negative sulla contrattazione. Confindustria, dal canto suo, ribadisce che i suoi contratti si pongono già al di sopra dei 9 euro all’ora, Legacoop è disponibile al confronto ma insiste anche sulla regolazione della rappresentanza.

I nfine, Governo e centrodestra restano contrari: meglio promuovere i contratti, sostengono. Se la proposta venisse approvata in Parlamento, i trattamenti economici minimi (Tem) e complessivi (Tec) continuerebbero ad essere stabiliti dai contratti nazionali di lavoro firmati dalle associazioni imprenditoriali e sindacali, ma il Tem non potrebbe in ogni caso essere inferiore a 9 euro lordi l’ora. Un valore che costringerebbe a rivedere al rialzo la retribuzione di diversi contratti nel settore dei servizi (per esempio, la vigilanza privata) e nell’agricoltura, che si collocano almeno un paio di euro sotto il nuovo limite. Gli effetti sarebbero invece marginali nel settore manifatturiero coperto dai contratti firmati da Confindustria. Il testo prevede che, entro 12 mesi, un decreto legislativo dovrebbe stabilire la soglia minima anche per il lavoro domestico.

La proposta s’inserisce nella falsariga della Direttiva europea sul salario minimo approvata lo scorso mese di aprile, che non impone di cambiare i sistemi nazionali esistenti sul salario minimo, ma nel rispetto delle differenze dei modelli in uso nei Paesi Ue stabilisce un quadro procedurale per promuovere salari minimi «adeguati ed equi». La Direttiva, però, è vincolante nell’obiettivo, ovvero l’esistenza di un salario dignitoso in tutta l’Ue.

Il salario minimo legale esiste già in 21 Stati membri, mentre negli altri sei, tra cui l’Italia, vige la contrattazione collettiva. La Direttiva europea prevede che ogni paese Ue dovrebbe assicurare un salario minimo pari almeno al 60% del salario mediano: in Italia corrisponde a circa 1.250 euro al mese, poco meno di 8 euro lordi l’ora. Per quanto riguarda la forma, l’Ue lascia due possibilità d’adeguamento agli Stati membri: possono decidere di applicare un salario minimo per tutte le categorie oppure ricorrere maggiormente alla contrattazione collettiva. In Italia, l’introduzione del salario minimo non è detto che porti davvero a dei cambiamenti. Da noi i contratti collettivi di lavoro coprono infatti l’89% dei lavoratori; quindi, la direttiva Ue non sarebbe vincolante. Tuttavia, si può introdurre ugualmente un salario minimo per il restante 20% dei lavoratori rimasti fuori dalla contrattazione collettiva.

La Direttiva europea è solo il primo passo di un processo più lungo che, però, mette in chiaro cosa l’Ue non farà: non introdurrà un salario minimo uguale in tutti paesi e non interverrà nei processi decisionali nazionali. Infine, la Commissione non imporrà la definizione di un salario minimo per legge in quei paesi dove i minimi sono stabiliti nei contratti collettivi. Secondo il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, oggi in Italia possiamo costruire un modello in cui nessuno sia lasciato senza tutele. «Può esserci un primo livello di puro contrasto alla povertà, con il reddito di cittadinanza riformato; un secondo imperniato sul reddito minimo come definito dalla proposta di direttiva; un terzo basato sui minimi tabellari della contrattazione collettiva e un quarto livello, superiore, che integra gli altri ele menti del Tec, il trattamento economico complessivo».

La proposta di direttiva prevede, infine, che i paesi con un salario minimo debbano mettere in piedi un sistema per la governance e l’aggiornamento dello stesso salario minimo.

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