È passato tra il disinteresse generale il recente Rapporto Onu sulle disuguaglianze di genere (“The paths to equal”). Dalla sua lettura emerge un quadro allarmante. Nel mondo sono ancora tre miliardi le donne discriminate e offese, senza parità di diritti. Vivono una condizione di subalternità e di esclusione dalla sfera della piena dignità sociale. Secondo l’indagine dell’Onu, mancherebbero 131 anni al raggiungimento dell’uguaglianza uomo-donna. La situazione è drammatica in quegli Stati con livelli bassi di humus democratico.

M a rimane preoccupante anche in quegli Stati che annoverano una consolidata storia di democrazia, come l’Italia. Il rapporto ci dice che nel Paese di Rita Levi Montalcini, Grazia Deledda e Tina Anselmi la situazione risulta migliorata, ma rimane terzultima in Europa, seguita solo da Ungheria e Repubblica Ceca.

Siamo il fanalino di coda del Vecchio Continente, nonostante al vertice dell’ordinamento sia collocata una Costituzione, col suo articolo 3, che unanimemente è considerata una delle più avanzate al mondo. Dal 1946, anno in cui, finalmente, fu riconosciuto il diritto di voto alle donne, non abbiamo fatto, evidentemente, molta strada. Su questo fronte, l’Italia rimane un Paese in debito di progresso sociale. Se si migliorano gli indici economici ma non si riconoscono, in forma sostanziale, i diritti fondamentali, quale quello di uguaglianza, la società vive una condizione di arretratezza e il sistema politico non può dirsi ancorato a solide basi democratiche.

Secondo l’Asvis, un’organizzazione che lavora sull’attuazione dell’Agenda Onu 2030, le cause di questa pessima classifica vanno ricercate nell’alto tasso di disoccupazione femminile, nella marginalizzazione delle donne alla sfera dei ruoli familiari, nell’assenza di adeguati servizi sociali destinati alla maternità e nel peso femminile ancora troppo basso nei ruoli di responsabilità nelle imprese e nelle istituzioni. E poi la terribile emergenza della violenza contro le donne, il dilagare, da Nord a Sud, dei femminicidi. Non solo. Per molti, la causa principale è di natura culturale. La società italiana è attraversata, a partire dalle famiglie, da un’idea, non dichiarata, di prevalenza del genere maschile. Giorgia Meloni è la prima donna presidente del Consiglio dall’Unità di Italia. Laddove a decidere è la politica, le donne spesso sono messe da parte. Quando la selezione avviene con procedure di parità basate sul merito, le stesse si affermano sugli uomini. È il caso della magistratura dove si accede per pubblico concorso.

Qualcosa è stato fatto. Va detto che la normativa sta cambiando, così come si sta prendendo consapevolezza che non possiamo aspettare altri 131 anni per vedere affermata la piena parità di genere. Insieme alla scrittura dei nuovi diritti, bisogna, però, cambiare, in molte parti, il linguaggio (lo ripete tutti i giorni mia figlia) e rimettere i generi dentro l’unica cornice della “persona umana”, come scrissero, dopo il dramma del ventennio fascista, con preoccupata visione, i nostri padri costituenti.

È un percorso che, trasversalmente, dovrebbe coinvolgere tutte le istituzioni, dalla famiglia, alla scuola fino agli ambienti di lavoro. Un percorso che dovrebbe avere alla base il metodo del confronto per non parlare esclusivamente alla mente. I have a dream (Io ho un sogno), disse Martin Luther King nell’epico discorso dell’agosto 1963. Sapeva che per raggiungere la piena uguaglianza tra bianchi e neri, bisognava prima di tutto parlare al cuore delle persone e interpellare la loro sensibilità; sapeva che anche nelle persone malvagie è pos sibile coltivare un fiore e fare risplendere la luce. Può essere la strada maestra per risalire la classifica e ridare speranza ai tre miliardi di donne nel mondo che reclamano parità di diritti e giustizia.

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