“È stato un grave errore che l’Occidente abbia permesso l’accesso a tante persone di culture e religioni totalmente diverse fra loro.” Da quando il diplomatico americano Henry Kissinger ha pronunciato questa frase nel commentare i pubblici festeggiamenti messi in atto, per le strade di Berlino, da certi arabi dopo l’attacco terroristico di Hamas che, il 7 ottobre scorso, è costato la vita a più di mille israeliani non riesco a pensare ad altro. Abbiamo davvero sbagliato, dunque? E le parole del centenario Kissinger rappresentano la verità?

F igura acclamata – ma anche contestata - Henry Kissinger non è una persona qualunque. Nato in Baviera nel 1923 da una famiglia ebreo-tedesca fu costretto a emigrare per motivi razziali e a lasciare la Germania di Hitler. Mente sopraffina, è stato segretario di Stato di due Presidenti americani (Nixon e Ford) e ha dedicato la sua vita alla mediazione tra arabi e israeliani. Nel 1973 ha ricevuto il Nobel per la pace per aver contribuito alla risoluzione della guerra in Vietnam, dopo averla a lungo fomentata. I nazisti erano assai probabilmente convinti che l’Occidente avesse sbagliato a integrare all’interno delle proprie società così tante persone di religione ebraica. Ecco perché sentire un personaggio del calibro di Henry Kissinger, intervistato da Mathias Döpfner, proclamare che l’Occidente ha sbagliato ad accogliere in gran numero persone di culture e religioni tanto diverse fra loro mi ha profondamente turbato. L’analisi di una delle figure politiche più affilate del pianeta, d’altra parte, non può essere certo presa alla leggera. Ecco perché vale la pena approfondire.

Cominciamo col dire che il tema dell’immigrazione è ormai al centro di tutto. Perfino in Svezia – uno degli stati europei che, in questi ultimi vent’anni, si è distinto per aver accolto un altissimo numero di rifugiati – si è arrivati a una tensione sociale che ha portato al governo l’estrema destra: abilissima a strumentalizzare le paure di una popolazione ormai assediata dalla presenza sempre più incombente di un flusso migratorio sfuggito di mano. Perfino lì, in quella società privilegiata e apparentemente perfetta, l’integrazione scricchiola e vacilla e la società sembra divisa come all’interno di un uovo: il tuorlo (gli svedesi) e l’albume (gli immigrati) che condividono lo stesso spazio (il guscio, lo stato) pur rimanendo ben separati e distinti fra loro da una membrana tanto invisibile quanto impenetrabile.

Ma è dunque una questione di numeri? L’equilibrio esiste fino al momento in cui troppe persone di culture e di religioni diverse si innestano in un determinato Paese? Ha ragione Henry Kissinger, o è l’Occidente ad aver fallito per non essere riuscito a integrare nel proprio tessuto sociale coloro che sono stati accolti? Non sottovalutatelo: è un dilemma fondamentale. E, poi, quale sarebbe il numero giusto? Come lo si dovrebbe calcolare? Le variabili sono infinite. Senza contare che non si tratta di una questione di osmosi, in cui il momento della saturazione sarebbe scientificamente prevedibile e, pertanto, evitabile.

L’Occidente è davvero saturo e non può più permettersi di continuare ad accogliere “persone di culture e religioni totalmente diverse fra loro”? L’Occidente ha davvero sbagliato ad aprire le sue porte all’altro da sé? O, più semplicemente, ha fallito nell’integrazione di coloro che sono stati accolti? Purtroppo le domande come queste finiscono per esaurirsi nel fomentare i populismi delle campagne elettorali. Ma la verità non è uno slogan da strillare, né può essere una convinzione preconcetta. La verità, per essere trovata, necessita di profonda analisi e di riflessione. E, comunque, se l’Occidente avesse veramente sbagliato a consentire l’accesso a così tante persone di culture e religioni totalmente diverse fra loro, a che punto, allora, ci si sarebbe dovuti fermare?

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