S i avvicina la legge di stabilità, si contendono, da più parti, le (poche) risorse economiche disponibili. E si prova ad immaginare l’Italia del domani. In molti si accorgono che le isole non godono di buona salute ed emergono, in tutta la loro crudezza, i dati che le riguardano. Dalla Commissione europea ci dicono (Indice di competitività regionale ICR) che su 234 regioni d’Europa, Sardegna e Sicilia si collocano al 203° e 219° posto. Riescono a fare peggio soltanto alcune regioni depresse di Grecia, Romania e Bulgaria.

T ra i dati peggiori, il numero dei laureati, con la Sardegna al 13,1 e la Sicilia al 11,8%, a fronte di una media nazionale del 15,2% (ufficio Statistiche Regione Sardegna). Negativi anche i dati sulle performance sanitarie (Demoskopika, 2019), con Sicilia e Sardegna incluse nel blocco delle cinque Regioni considerate “malate” (assieme ad Abruzzo, Campania e Calabria). Così come quelli relativi alle infrastrutture (Banca d’Italia, 2021), con le due isole appena distanziate tra loro per dotazione stradale, ferroviaria, portuale ed aeroportuale. Anche i dati sul pil pro capite non sono edificanti con la Sardegna al 14º posto (21.300 euro/anno) e la Sicilia al 19º (17.400 euro/anno), sopra solo alla Calabria. Mentre quelli sulla densità demografica vedono ormai la Sardegna relegata all’11º posto (con 65 abitanti/km2).

Ci si sta chiedendo se questi dati sono frutto della condizione di insularità che penalizza (non solo) i sardi e i siciliani. Ed in effetti appare evidente come la condizione insulare aggravi problematiche che sono comuni anche ad altre regioni. Non è facile tuttavia quantificare esattamente il divario e poter così addebitare le molte disfunzioni del sistema pubblico e privato al mero dato insulare. Ad esempio, se uno dei fattori più penalizzanti per la Sardegna è proprio la scarsa qualità delle istituzioni le quali, in raffronto ad altre regioni europee di analogo grado di sviluppo (dato medio 80.3) sono viste come molto meno performanti (49,6), ciò dipende dalla condizione insulare? Se la banca dati sulle opere incompiute curata dal Ministero delle infrastrutture (Simoi) ci dice che su 379 opere incompiute in Italia, 138 sono in Sicilia e 47 in Sardegna, ciò dipende dalla loro insularità?

È innegabile che ciò produce effetti negativi su alcuni indicatori ma altrettanto noti sono gli esiti di un saggio curato da economisti e sociologi inglesi e americani qualche anno fa: “Perché le Nazioni falliscono” (Acemoglu, Robinson, 2012). Questi studiosi si erano infatti chiesti il perché talune nazioni prosperano ed altre falliscono. E la risposta che è emersa risiede primariamente nella qualità delle istituzioni pubbliche e private. Dove esse tendono a soddisfare gli interessi di pochi, le relative comunità si impoveriscono. Dove, viceversa, esse contribuiscono all'interesse generale, le comunità prosperano. È quanto sta emergendo, anche in questi giorni, dal dibattito suscitato attorno all’ambito riconoscimento del Patrimonio nuragico da parte dell'Unesco. Un enorme giacimento archeologico, fatto di migliaia di siti, che attende da secoli di essere valorizzato e che forse solo ora sembra tornato a meritare la dovuta attenzione, anche in vista di una auspicata progettualità e pianificazione che possa restituire ad esso il prestigio che merita e tutte le opportune ricadute culturali, economiche e sociali sul territorio della Sardegna.

Ma, anche qui, domandiamocelo: perché non siamo riusciti, in decenni, a trasformare così tanta ricchezza nello sviluppo socioeconomico della nostra Regione? Ciò dipende dall’insularit à? E allora impariamo a distinguere, quando cerchiamo di valutare cause ed effetti della nostra condizione insulare, gli aspetti geografici, fisici e morfologici da tutti gli altri. Se siamo nella condizione in cui ci troviamo ciò non dipende solo dai primi. C’entriamo molto, forse troppo, anche noi.

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