L a Francia, che conta circa 700 morti sul lavoro all’anno – in Italia si superano i mille –, chiede “un elettrochoc” per arginare il fenomeno e lancia una grande campagna di prevenzione. Scoppiano però le polemiche quando si rileva che si tratta di “une hécatombe au masculin”, un’ecatombe al maschile, giacché secondo le statistiche più recenti disponibili oltralpe i casi mortali di incidenti sul lavoro, circa due al giorno, riguardano per il 94% gli uomini. I numeri dicono che sono toccati soprattutto i giovani, gli interinali, gli stagionali, i lavoratori delle piccole aziende di subappalto.

C he i settori più colpiti sono costruzioni, industria mineraria, sicurezza e salvataggio, ordine pubblico, ecc., dunque un’importantissima porzione dell’infrastruttura della società; che i morti appartengono per lo più a classi sociali disagiate; che il tasso di mortalità delle donne è circa 15 volte inferiore a quello degli uomini. Questi ultimi due dati di fatto non hanno portato a una dovuta riflessione sociologica (anche il governo se n’è tenuto distante), ma hanno invero suscitato fastidio e prese di posizione solo per il fatto d’essere stati citati. Le statistiche di classe e soprattutto di genere hanno purtroppo una strada a senso unico di denuncia: il mondo maschile non-Ztl attraversa una nube d’invisibilità dalla quale emerge solo per comportamenti criminali, mai per vincoli o per meriti.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti che hanno visto nascere e nutrito il fenomeno del “Me Too”, secondo quanto rilevato dal Public Health Post dell’università di Boston il 92% dei morti sul lavoro sono uomini. Il caso di New York dopo l’11 Settembre è preso come esempio di comunicazione imperante: tra gli oltre 400 vigili del fuoco, poliziotti e addetti alla sicurezza morti nel prestare aiuto alle vittime degli attentati del World Trade Centre, si contano tre donne, due poliziotte e un’addetta alle ambulanze. I loro nomi – Kathy Mazza, Moira Smith e Yamel Merino – sono citate ad ogni celebrazione e la loro vita, la loro fine e i loro volti sono raccontati da 22 anni sui media. Ciò tra centinaia di uomini defunti, anch’essi eroi civili, per definizione invisibili, dimenticati.

Prima di parlare dell’Italia, la necessaria premessa riguarda l’analisi di contesto che sta diventando sempre più emotiva e meno scientifica, meno storicistica e crociana. In questo momento va di moda il sermone buonista e contemporaneamente la contrapposizione dura, la prevalenza manichea del pensiero unico, la lotta categoria contro categoria come se potesse esistere (e come se fosse un bene che esistesse) un mondo del tutto omogeneo e omogeneizzato, allineato monoliticamente. Una società dove uno vale uno, dal cardiochirurgo in giù o dal manovale in su, fate voi, e dove si arriva a idealizzare che si possa persino fare a meno dell’uomo, come suggeriscono le estremiste del femminismo, essendo ormai la parità un valore assoluto non solo delle condizioni di partenza, ma del panorama finale. Ovviamente non esistono mestieri pericolosi, non sarebbe giusto che alcune categorie ne venissero escluse per definizione, aboliamoli tout court e continuiamo imperterriti a disegnare un mondo disneyano ovviamente verde, sostenibile, inclusivo, rigido nei diritti di tutti – e nel quale, banalmente, non si capisce chi provvederà alla manutenzione delle fogne: i robot, l’intelligenza artificiale, la nutrizione fatta in modo da non intasarle mai, oppure, come oggi, uomini appartenenti a classi svantaggiate, italiani o stranieri purché invisibili?

L’Italia non migliora nel tempo: vanta il record di circa 80 morti sul lavoro al mese, 4,4% in più rispetto all ’anno 2022 che ha totalizzato 1.090 decessi (di cui il 5% circa di donne, dato coerente con la situazione mondiale). Nel mentre esplodono i casi di suicidio, uno ogni 10 ore, più di 4mila l’anno, uomini per oltre il 70%. Di quante ecatombi non si parla?

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