L ’estate scorsa su questa pagina abbiamo raccontato della “guerra delle targhe” nel nord del Kosovo al confine con la Serbia. Incidenti tra la minoranza della popolazione serba e la maggioranza albanese che rischiavano di far esplodere una situazione da tempo incandescente nel cuore dei Balcani. Una questione non certo burocratica (la sostituzione delle targhe automobilistiche serbe con quelle della repubblica kosovara, non riconosciuta da Belgrado), ma uno dei tanti episodi che periodicamente riaccendono la tensione ai confini delle repubbliche federali dell’ex Jugoslavia.

N el pieno del conflitto ucraino sembrava l’ennesima crisi da inquadrare in un contesto europeo più ampio, con il governo di Belgrado appoggiato da Putin e dalla Cina, mentre Pristina dagli Stati Uniti e dalla maggior parte dei Paesi occidentali (nell’Ue sono 22 su 27). Ed ecco che a meno di un anno non solo non sono stati risolti i nodi di quei giorni, ma i motivi delle tensioni si sono moltiplicati sfociando nei gravi incidenti del 29 maggio nella cittadina di Zvekan. Solo grazie al pronto intervento del contingente Kfor (Kosovo Force) della Nato composto da 3500 uomini, di cui 850 alpini italiani e attualmente al comando del generale italiano Angelo Michele Ristuccia, la situazione è rimasta sotto controllo. Non ci sono state vittime, ma negli scontri tra manifestanti e forza di interposizione Nato sono rimaste ferite un’ottantina di persone e anche 14 militari italiani. Incidenti si sono ripetuti negli ultimi giorni in altri centri a popolazione serba, con l’allarme al massimo livello mentre la diplomazia internazionale cerca di far dialogare i due governi. Sinora con pochi risultati e con poco ottimismo per arrivare ad una conclusione positiva di una vertenza che, secondo gli analisti, allo stato attuale è di fatto irrisolvibile. Da questa settimana ci riprovano gli inviati speciali dell’Ue e degli Stati Uniti in missione a Belgrado e a Pristina.

Gli scontri sono scoppiati in diverse città dove i dimostranti serbi hanno tentato di impedire l’insediamento dei sindaci albanesi eletti alle amministrative di aprile, boicottate dalla popolazione serba a causa della disputa in corso col governo kosovaro. Le posizioni tra le parti tutt’oggi sono distanti e piuttosto rigide. Il primo ministro kosavaro, l’ultranazionalista Albin Kurti, continua ad accusare apertamente il presidente serbo filorusso Aleksandar Vucic di aver orchestrato gli scontri, sostenendo che l’escalation della violenza è stata pianificata, ben organizzata e attuata con l’apporto di gruppi criminali. Parole incendiare, dette in parlamento, che vengono ribaltate dall’altra parte con l’accusa di rivelare il “carattere fascista” del governo di Kurti. Sappiamo bene che ciò che accade sull’altro versante dell’Adriatico riguarda molto da vicino noi italiani. Per la vicinanza, gli interessi economici e storici con i Balcani, questo conflitto a bassa intensità è una pericolosa polveriera alle porte di casa. Ancor di più oggi che impegnati a mantenere la pace apparente sono i nostri alpini.

Come se ne esce? Tutti gli attori coinvolti sulla scena pongono condizioni, quindi così è complicato trovare un tavolo su cui discutere. Il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, ha indicato tre richieste precise per risolvere la vicenda-Kosovo: nuove elezioni; garantire la partecipazione alle elezioni dei serbi locali e creare un organismo delle municipalità a maggioranza serba, uno dei punti cruciali del negoziato. Il generale Ristuccia ha criticato la decisione di Kurti di far insediare i sindaci albanesi senza tener conto dei consigli dell’intera comunità internazi onale. E se lo dice in un’intervista al Corriere della Sera il comandante in capo del Kfor c’è da preoccuparsi che, crisi dopo crisi, il precario equilibrio possa precipitare in ogni momento. Senza alcun dialogo ogni accordo rimane lettera morta, i veri negoziati a quanto pare non sono neppure cominciati.

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